IL PICNIC PER L’INIZIO DELLA FINE DEL COMUNISMO (di Guido Verna)

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verna 11. In una recente, mirabile riflessione sulla Storia, il Regnante Pontefice Benedetto XVI, muovendo dalla considerazione che «[…] la memoria storica è veramente una “marcia in più” nella vita, perché senza memoria non c’è futuro», concludeva in questi termini: «[…] il cristiano è uno che ha buona memoria, che ama la storia e cerca di conoscerla».

La riflessione mi aveva molto colpito, per cui qualche giorno dopo, quando mi è accaduto “qualcosa” che ha fatto riemergere “qualcos’altro”, ho ritenuto che la Storia — o almeno la piccola parte di essa che frequento di più — mi interpellasse per essere conosciuta anche sul campo e non solo sui libri, con la conseguenza di sentirmi obbligato moralmente ad una rimodulazione, nei tempi e nei percorsi, della consueta vacanza estiva.

Esplicito subito quanto di oscuro si cela in quello che ho appena detto. Il “qualcosa” che mi è accaduto è un incontro con una foto trovata casualmente durante un viaggio virtuale in un certo luogo, mentre il  “qualcos’altro” è il ricordo di un viaggio invece autentico di tanti, tanti anni fa, fatto proprio “lì”, in quel certo luogo, cioè sulle rive del Neusidler See, il lago austro-ungherese a est di Vienna, nel Burgenland.

 2. Eravamo intorno all’85, col comunismo ancora apparentemente fortissimo, anche se più di qualcuno, con buoni orecchi, ne avvertiva da tempo i sinistri scricchiolii. Non ricordo più il perché (avevamo letto qualcosa sui giornali? o sentito raccontare qualcosa? o visto una foto? chissà..) ma con mia moglie decidemmo di andare in quel lontano lago a vedere una strada interrotta da una sbarra, una frontiera chiusa: la frontiera tra Austria e Ungheria, emblema delle frontier e t ra Occidente e mondo comunista.

verna 3Qualche anno dopo, tra i miei appunti, trovai così sintetizzato il momento topico di quel viaggio: «La strada che attraversava il boschetto finiva improvvisamente ed angosciosamente in una rete e in un filo spinato. Di là, dove la strada non c’era più, c’era l’Ungheria ancora comunista. Le torrette con in soldati armati di binocolo e di mitra, un elicottero che volava a bassa quota, il latrare incessante e cattivo dei cani avevano fatto scendere sui nostri cuori un velo spesso di tristezza che faceva da pendant a una grande e antica rabbia».

Sembrava una messa in scena di un regista occidentale e anticomunista: c’era “tutto” per mostrare il volto truce e inumano di quelli che comandavano “di là”. Invece era tutto tragicamente reale, e il loro potere e la loro forza venivano ostentati con aggressiva impudicizia.

Lanciammo nell’aria, verso l’altra parte, qualche preghiera che né mitra o soldati né cani o fili spinati potevano fermare, e andammo via rinnovando la promessa di continuare nella “buona battaglia”, non senza aver ringraziato Dio di essere capitati “di qua”.

Poi, qualche anno dopo, il 9 novembre dell’89, il Muro cadde e i fili spinati di tutta Europa furono riavvolti.

Due mesi prima, però, l’11 settembre — un giorno dell’anno, sembrerebbe, destinato a “contenere” avvenimenti di qualche peso —, proprio in questa zona, a qualche centinaio di metri dalla “nostra” strada, era andata in scena la Grande Anticipazione della Caduta: clamorosamente, proprio qui, la frontiera era stata aperta: l’Ungheria aveva concesso il passaggio verso la libertà ai cittadini della Germania comunista!

Provammo in quei momenti una grande emozione, immaginando che un po’ avessero contribuito anche le nostre preghiere di allora.

Ma “prima” di quel fatale giorno di settembre era successo qualcos’altro, che avevamo completamente rimosso e che solo quest’estate siamo riusciti felicemente a recuperare. 

3. Verso la fine dello scorso luglio — in uno dei miei non infrequenti viaggi notturni con Google Earth — mi era venuta la voglia di ritrovare “quel” confine; e “muovendomi” in quei luoghi, avevo incrociato la foto di un monumento a forma di porta, con questa didascalia: “Fertöràkos, the liberty door”. La sorpresa e la curiosità conseguente mi hanno allora indotto a “muovermi” più attentamente nella zona, portandomi a scoprire via via, su prati verdi e ben curati, il grande monumento di pietra bianca, la campana, il filo spinato pro memoria: ho scoperto, cioè, il Picnic Paneuropeo, del quale, vergognandomi molto, non ricordavo nulla, ma di cui forse nulla avevo mai saputo.

Era successo che prima di quell’11 settembre — il giorno della Grande Anticipazione — di anticipazioni ce n’erano state altre due, più piccole ma non meno significative nella prospettiva della riconquista della libertà di milioni di uomini.

La prima, il 27 giugno, quando — per evidenziare la decisione del governo ungherese del  maggio precedente di smantellare tutte le postazioni di sorveglianza che incrudelivano il loro confine — Austria e Ungheria, nelle persone dei loro rispettivi Ministri degli Esteri Alois Mock e Gyula Horn, avevano deciso di attraversarlo insieme a simboleggiare l’avvento del tempo nuovo. Lo avevano attraversato proprio qui, sulla strada che va da Sankt Margarethen im Burgenland a Sopronköhida.

La seconda, il 19 agosto, fu proprio il cosiddetto Picnic Paneuropeo. Quel giorno, con quel nome, fu organizzata — dal partito ungherese di opposizione Forum Democristiano e dall’Unione Paneuropea internazionale — una manifestazione simbolica, patrocinata dal Presidente dell’Unione citata (e parlamentare europeo della CSU) Otto d’Asburgo e dal Segretario ungherese di Stato, Imre Pozsgay [cfr. WKP].

Il taglio cerimoniale fu affidato alla Signora Walburga Asburgo Douglas, quinta figlia di Otto e Segretario generale della stessa Unione. Ma si trattò un taglio assolutamente sui generis: la madrina, infatti, usò cesoie e non forbici, perché tagliò il filo spinato e non un nastro: la cortina di ferro era stata infranta.

Per dare più concretezza all’evento simbolico, fu deciso di tenere aperta la frontiera per tre ore. Ma accadde qualcosa di imprevisto: dal verde alto dei campi di mais — nei quali si erano nascosti, dopo aver saputo del Picnic, chi da qualcuno, chi dagli adesivi attaccati dagli organizzatori per pubblicizzarlo temendo un flop — emersero inattesi circa 600 tedeschi orientali, in vacanza sul lago, che di corsa si precipitarono oltre il confine, verso la libertà. La polizia ungherese non sparò, come aveva l’ordine di fare in situazioni simili.

Il Muro, in questa sua “trasposizione” austroungarica, aveva cominciato a sbriciolarsi proprio quel 19 agosto. La cortina di ferro, all’improvviso, era diventata penetrabile.

Anche il cupo Presidente della Repubblica Democratica Tedesca Erich Honecker — che da capo del Partito e dello Stato solo qualche mese prima, il 19 gennaio, aveva dichiarato, minaccioso e sprezzante, che «il Muro “esisterà ancora per i prossimi 50 o 100 anni, se i motivi della sua esistenza non verranno eliminati”» [TF, p.61] — dovette arrendersi.  Ma non concesse l’onore delle armi, se sul Picnic Paneuropeo ritenne di dichiarare al Daily Mirror quanto segue: «Habsburg [Otto] distribuì opuscoli al confine polacco, invitando i tedeschi dell’est in vacanza ad un picnic. Quando vennero al picnic gli furono dati regali, cibo e marchi, prima di riuscire a persuaderli [sic] ad andare all’ovest». Fantastico: il comunismo aveva talmente deformato gli uomini che bisognava pagarli per convincerli ad essere liberi!

Ma i tedesco-orientali corsero invece verso la libertà gratis e in tantissimi, con le lacrime agli occhi e il groppo in gola. Gli organizzatori ebbero paura per questa “fuga” imprevista e, soprattutto, per le sue dimensioni. Alla fine, però, —  come racconta, in una bella intervista, la madrina Walburga Asburgo Douglas — «[…] [siamo tornati] indietro  fino al luogo stabilito, nel punto dov’è una torretta di avvistamento, e abbiamo cominciato i preparativi per il pic-nic, con le tovaglie, i cestini, le salsicce, la birra, il vino, la musica, coi motociclisti che facevano la staffetta, gli austriaci con un gruppo di cavalieri che sono arrivati al confine a cavallo, la banda degli ottoni, insomma tutto quello che era stato previsto»[WAL].

Da allora, ogni anno, tra Sankt Margarethen Sopronköhida, il 19 agosto si rinnova il Picnic Paneuropeo.

4. Come potevamo, allora, una volta sollecitati da “quelle” foto, non approfittare delle nostre consuete vacanze sulle montagne austriache per partecipare al Picnic di quest’anno? Certo, l’anno scorso ricorrevano i vent’anni e c’era tanta gente importante, anche la Signora Merkel. Ma pure un anno dopo l’emozione è forte e ci contentiamo.

Raggiungiamo la nostra meta passando da Sopron — la città dove il cardinale Mindzenty  fu tenuto prigioniero dai nazionalsocialisti e nella quale vide entrare e “operare” le truppe “liberatrici” socialcomuniste  [cfr. JM, p.39] —, con qualche difficoltà per la totale assenza di indicazioni (solo una freccia a sinistra che indica il Picnic, sulla strada per Fertöràkos). All’ufficio turistico sanno del posto, ma non hanno altro da darci che una generica cartina, che nemmeno lo comprende e da cui si ricava solo la direzione da prendere.

Sono le dieci di mattina e c’è solo qualche visitatore. Il monumento di pietra bianca, che si alza laggiù sul prato verde, ci appare molto bello. Ma non è un giudizio “tecnico”, bensì il tentativo di tradurre in termini estetici la sensazione di calore umano che ci avvolge nel vedere descritta con la pietra un’umanità composita, vecchi e giovani, che riemergono dai sotterranei bui del palazzo crollato del comunismo, e che ancora forti, sorridenti e commossi, salgono abbracciati le scale della libertà e tornano fuori a guardare l’orizzonte. Il pezzo di muro di Berlino incastrato sulla cornice del timpano frontale è l’unico elemento grigio, e mostra — spiega un pannello — come quello che è accaduto qui “abbia accelerato la riunificazione dell’Europa, e, infine, portato alla caduta del muro di Berlino nella capitale divisa della Germania”.

La Fountaine of honour, il monumento regalo dal Giappone —  l’unica nazione non direttamente interessata che, peraltro,  sembra aver contribuito al Picnic —  è una sorta di gazebo in legno, con cinque cuspidi, ed  è decisamente meno “comprensibile”; ma anche la colonna lignea “Memorial” degli organizzatori non è entusiasmante, per la sua somiglianza ad un totem.  

I monumenti più emozionanti, però, sono i due massimamente “realistici”. Ci incamminiamo sulla stradina di ghiaia lungo la quale sono i dodici pannelli illustrati che ricordano i vari momenti del Picnic, l’originale e il ventennale. A metà circa di questo percorso della memoria, incontriamo il primo di essi: un pezzo di filo spinato di “allora”, lasciato così com’era. Alla fine, troviamo il secondo: il traliccio sul quale era ricavata la torretta di controllo su cui operavano i soldati comunisti col mitra e il binocolo. La panchina di legno sotto di esso — incombente ma se Dio vuole non più terrorizzante — è l’occasione per riflettere un po’ e indirizzare una preghiera riconoscente alla Madonna di Fatima. Non abbiamo viveri, ma non rinunciamo al nostro picnic, accontentandoci delle poche more mature che ci offrono i rovi lì intorno.

Solo un tendone bianco di plastica lascia presumere che avverrà qualcosa. Un signore che sta lì intorno ci informa che il Picnic avrà inizio alle 17. Torniamo, allora, nella vicina Sankt Margarethen, percorrendo una strada quasi tutta dritta, tra campi coltivati così orizzontali da lasciar già presumere la puszta, fino alla rotonda nell’intersezione con la strada principale. Anche qui, purtroppo, verifichiamo la totale assenza di indicazioni. La Odenburgerstrasse, cioè la strada da cui veniamo, secondo le frecce variamente colorate porta a caffè, vinerie, Freizeitzentrum, privatzimmer, ma non al Picnic. Come spesso accade in Italia, anche in questo piccolo paese austriaco sembra vigere la rimozione della memoria, almeno quando non è congrua con la Vulgata politicamente corretta.

Attraversando il centro di Rust — il paese delle cicogne — per la visita alla Chiesa dei pescatori e il pranzo nello stesso Heurigen di un quarto di secolo fa, verifichiamo che la crescente denatalità europea qui appare simbolicamente evidente: le disoccupate cicogne sembrano molto più numerose di allora, svolazzanti e rumorose o in piedi, quasi presuntuose, nei loro nidi sugli alti trespoli in corrispondenza dei camini.

Quando, all’ora giusta, torniamo alla “nostra” frontiera, sui prati c’è già qualcuno. Il tendone è aperto e dentro ci sono sedie e tavoli disposti a mo’ di sala conferenze. E’ pronto un palchetto con le bandiere dell’Austria, della Germania e dell’Ungheria. C’è anche una Trabant giallina, esposta pro memoria,  nel cui interno una sorta di bandiera stesa sui sedili ne identifica la proprietà: Lions Club Sopron.

Man mano arrivano le televisioni locali e gli altri partecipanti. Alla fine saranno poco più di un centinaio, con non molti giovani. Si comincia con gli inni nazionali e poi con i discorsi ufficiali, nelle due lingue, da parte di due signori in abito scuro e una signora vestita di bianco. Non è disponibile un programma scritto e non riusciamo a sapere, per i nostri imperdonabili deficit linguistici,  né i nomi né le funzioni degli oratori. Poi, ciascun delegato porta i fiori alla base della colonna simile a un totem. Infine, con una sorta di processione laica, si va fino al grande monumento bianco, a depositare un mazzo di fiori. C’è un bel sole e la gente è compostamente felice. Una giovane e altissima signora ha gli occhi pieni di lacrime, mentre il vecchio soldato in divisa si fa accompagnare dalla mo glie intorno al monumento. Si torna sotto il tendone dove uno storico (o un politico, che somiglia molto a Imre Pozsgay) presenta un libro. Ci offrono garbatamente una bottiglietta di acqua. Il tempo di berla e il nostro Picnic finisce, perché l’oratore non è brevissimo e le altre persone dietro il tavolo lasciano presumere un pomeriggio troppo lungo per quel che resta della nostra disponibilità di tempo.

Fuori non ci sono né bande di ottoni né odore di salsicce né cavalli e cavalieri austriaci. E temiamo che non arriveranno.

Quando andiamo via, qualcuno ci guarda incuriosito: forse ha capito che siamo gli unici del “resto del mondo” che hanno partecipato al loro Picnic. Non ci sentiamo orgogliosi. Anzi, ci vergogniamo un po’… 

Andiamo via, però, con una grande ombra: non abbiamo trovato — speriamo che sia solo una nostra disattenzione — nessun simbolo sacro, almeno della sacralità cristiana e “europea”. Eppure a Fatima, la Madonna forse ci ha messo qualcosa di Suo …

 

Note:

[Benedetto XVI] Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, Sulmona, 4 luglio 2010, per l’incontro con i giovani nella Cattedrale di Sulmona, in occasione della Visita pastorale. 

http://www.totustuus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=3480

[TF]  [Thomas Flemming, Il muro di Berlino. Una città divisa in due, trad. it., Be.bra verlag, Berlino 1999]

[JM]  [József Mindszenty, Memorie, trad. it., Rusconi, Milano 1975]

[WKP]  http://it.wikipedia.org/wiki/ Picnic_paneuropeo, visitato il 28-08-2010.

[WAL]  Clemente Vanenti, Il Picnic e il Muro, intervista a Walburga von Absburg, Una città n. 37/1994 Dicembre,   in

http://www.unacitta.it/newsite/intervista_stampa.asp?rifpag=homepaginestoria&id=721&anno=1994, visitato il 28-08-2010.

Cfr. anche:

http://www.youtube.com/watch?v=tRzOdjfRnQo

http://www.youtube.com/watch?v=n2ArthQUxe4&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=9NXLJb8DPy4&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=Zugooeej6lg&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=oywBofXgJSU&feature=related

Intervista di Nicholas Brautlecht a Bella Arpad, ufficiale delle truppe di confine ungheresi il 19 agosto 1989 – Picnic per la libertà – Goethe Institut,

Febbraio 2009 in: http://www.goethe.de/ges/pok/dos/dos/mau/auf/it4236972.htm, visitato il 28-08-2010

 

 Guido Verna, 28 agosto 2010

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