ITALIANI NEL CATAI (di Claudio Tescari)

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Marco Polo

Nei primi anni del 1200, l’iniziativa di un uomo travolse un assetto antico di millenni. Temujin era il suo nome, il mongolo che riunì le tribù nomadi sotto il suo comando e che fu acclamato Cinziz Qan, cioè “sovrano universale”.

E Gengis Khan, come noi lo conosciamo, negli anni seguenti seppe diventare signore della gran parte del mondo conosciuto, più di Alesando Magno, più degli Imperatori romani. Conquistò la Cina, tutta l’Asia Centrale e l’Asia Minore ed iniziò ad invadere l’Europa, a partire dalla Russia, nel 1223.

Seppure affievolito dalla distanza, l’eco dell’invasione mongola, che era giunta fino alle porte dell’Europa, mise in allarme l’Occidente cristiano, il quale tentò di prepararsi alle successive ondate delle Orde mongole. A partire dal 1236, riprese l’invasione della Russia che si allargò poi alla Polonia, all’Ungheria, alla Germania orientale, con scorrerie che raggiunsero l’Albania, la Serbia e la Dalmazia.

Fortunatamente la morte del figlio di Gengis, Ogodai Khan, avvenuta nel 1241, salvò il resto dell’Europa dalla minaccia dei Mongoli. Fu il papa Innocenzo IV a prendere l’iniziativa diplomatica per cercare un accordo con il Khan, nei suoi intenti in funzione anti islamica. Nel 1245 furono inviate quattro missioni verso il Catai, l’impero Mongolo, due delegazioni di Francescani e due di Domenicani, perché ne giungesse almeno una, recanti lettere del Papa al Gran Khan.

Frà Giovanni da Pian del Carpine, minore francescano, portò sicuramente a compimento l’incarico ricevuto, consegnando la missiva a Guyuk Khan, nella quale il Papa rimproverava ai Mongoli i loro massacri e le devastazioni e li minacciava dell’ira di Dio se non avessero cambiato comportamenti e stile di vita e se non si fossero convertiti alla vera fede. I problemi di comunicazione vennero risolti traducendo il testo latino in persiano e, quindi, dal persiano nella lingua mongola. Il Khan ribadì che la religione mongolica era importante quanto quella cristiana e che il loro Dio era più potente, visto che aveva donato loro la forza di imporre il dominio in tutto l’Oriente e che, col suo aiuto, era loro intenzione conquistare il mondo. Dopo due anni di viaggio, nel 1247, Frà Giovanni tornò a riferire il messaggio del Khan e descrisse la sua esperienza in un libro, la Historia Mongolarum, che ebbe molti lettori. Un certo Benedetto, frate minore, redasse anche lui una cronaca della spedizione. Si ha notizia che il domenicano Fra Luigi del Portogallo fu ricevuto dal Khan e sollecitò la conversione del sovrano e di tutti i suoi sudditi, ricevendone un cortese rifiuto.

Intanto il re di Francia, San Luigi IX, organizzò un’ambasceria guidata da Guglielmo di Rubruck che partì nel 1253 e riuscì a giungere nella città di Karakorum, ove risiedeva il sovrano mongolo Qubilaj Khan. Questi si mostrò incuriosito ed interessato ad allacciare rapporti diplomatici con l’occidente, ma i tempi divennero maturi solo venti anni dopo, quando una delegazione mongola rese visita al papa Gregorio X in Francia, durante il secondo Concilio Ecumenico di Lione, nel 1274.

Frattanto, altri viaggiatori ecclesiastici e laici affrontarono con successo il viaggio verso il Catai. I fratelli veneziani Matteo e Niccolò Polo, effettuarono un primo viaggio tra il 1260 ed il 1269 ed un secondo, con Marco Polo, dal 1271 al 1295.

Nel frattempo, Qubilaj Khan aveva trasferito la sua residenza da Karakorum a Pechino, ribattezzandola Khanbalik ovvero “città del Khan”. Si avventurarono fino alla lontana Pechino varie delegazioni di mercanti e missioni di frati, tra cui è possibile ricordare Ricoldo di Montecroce ed Odorico da Pordenone per i laici, Ezzelino di Lombardia ed André di Longjumeau per gli ecclesiastici.

Quando i Mongoli – nonostante i successi militari – decisero comunque di lasciare la loro religione tradizionale, nonostante gli sforzi e l’impegno profuso dai missionari per evangelizzare i popoli del Catai, preferirono abbracciare il Buddismo, che avevano imparato a conoscere dai popoli conquistati e sottomessi.

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