L’ARTE DEI MACCHIAIOLI IN MOSTRA A ROMA (di Omar Ebrahime e David Taglieri)

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i-macchiaioliIn questo periodo primaverile va in scena al Chiostro del Bramante di Roma una vera e propria sinfonia di colori, intensità policrome e nobili suggestioni. La mostra dedicata ai Macchiaioli (I Macchiaioli. Le collezioni svelate) meriterebbe più di una visita (nove sezioni espositive, oltre cento opere nel complesso), perché è emozionante il modo in cui questi pittori italiani – tra i cosiddetti ‘minori’, e all’inizio il nome stesso venne coniato dalla critica in senso dispregiativo dando ad intendere che i loro quadri non rapresentassero altro che un insieme di macchiette – riuscivano a catturare momenti della vita vissuta, ordinaria e quotidiana, trasformandoli in istantanee di eternità e di ricordi, di passione e di introspezione. Risalta il metodo di sintesi che permette agli autori di rapire lo stato psicologico dei personaggi ritratti non trascurando la descrizione paesaggistica e viceversa: la pittura a macchia (fatta di continui contrasti di chiaro e scuro che tendono a rimuovere i contorni) sarà espressione di quel movimento realistico ottocentesco che dopo l’ubriacatura del romanticismo dei primi decenni tornava a privilegiare la luce, e le varie maniere di rappresentarla, come chiave di lettura principale della pittura figurativa. Nati a Firenze, nel “Caffè Michelangiolo”, intorno a figure come Telemaco Signorini (che fu uno dei primi teorici della ri-elaborazione della tecnica a macchia come strumento per rappresentare, quasi fotograficamente, la realtà), Giovanni Fattori, Diego Martelli e Cristiano Banti, in un periodo (1856-1870 ca.) in cui il luogo stesso del ‘caffè’ assumeva a simbolo tipico dell’unità culturale dello spirito europeo, e diffondendo progressivamente la propria influenza fino in quel di Livorno e provincia, i pittori macchiaioli viaggiano e ci fanno viaggiare con la mente nei contesti tanto paesaggistici quanto di ambiente storico e di rivista militare (dalle tradizionali parate alle scene di battaglia vere e proprie, come si vede in L’appello dopo la carica di Giovanni Fattori), nonché di ambiente più intimo (si veda Il giubbetto rosso di Federico Zandomeneghi) sempre tenendo però i piedi saldi alla realtà (è questo il ‘naturalismo figurativo’) e conservando così quel senso del reale che riesce infine addirittura a meravagliarci e a stupirci, nell’intenzione di farci accogliere l’oggettività della Natura in tutta la sua autenticità. In tutto questo non manca mai il riferimento al Bello, che ovviamente qui più in generale si ricollega ancora alle categorie del Giusto, del Buono e del Vero.

In secondo luogo, inaugurando quella poetica che qualche anno più tardi in letteratura prenderà il nome di ‘verismo’, e ritrae ad esempio con frequenza spazi e luoghi tipici della campagna maremmana locale,  risalta forte l’appartenenza ad una identità territoriale che spinse allora qualcuno a definire la corrente – di ampio respiro e diffusione – come caratteristico ‘movimento toscano’. Uno su tutti è comunque il dato fondamentale che ci trasmettono questi artisti a suo tempo relativamente poco valorizzati: ovvero che anche, e anzi soprattutto il colore (nelle varie e più diverse tonalità cromatiche) è parte integrante, non marginale, nel disegno della comunicazione visiva, e la loro ricca produzione pittorica ci comunica attraverso la tecnica tipica delle macchie il valore sobrio dell’onesta quotidianità senza per questo che l’arte in quanto tale finisca per venire meno come strumento di bellezza armonica ed educativa al grande pubblico. A Firenze, che in questi anni ritorna decisamente al centro del rinnovamento espressivo artistico della Penisola, oltre che meramente politico, allora convivevano due anime: quella popolare, inquieta per l’instabilità economica e gli sconvolgimenti sociali legati ai Moti unitari, e quella borghese ed aristocratica, con la presenza di elìte colte ed  illuminate, tra cui non pochi mecenati e collezionisti impegnati nella promozione pubblica e privata del gusto estetico che finanziarono diverse delle opere del movimento, più tardi confluite nella Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti. In un momento non facile per i compromessi, il merito dei Macchiaioli fu quello di ‘disegnare’ insomma una cerniera fra un centro ed una periferia. Gli stessi esponenti principali si fecero prendere talora dalle passioni per le inquietudini periferiche (qualcuno aderirà più avanti all’impressionismo che proveniva dalla Francia, allotanandosi dai temi di quella significativa esperienza storica), ma oltre a rappresentare il reale senza simboli, eccessi creativi o metafore particolari essi si posero un obiettivo di portata ancor più nobile, ricercare il vero. E questo attraverso la descrizione dei diversi colori della Toscana, ad esempio, una regione anche territorialmente stratificata con all’interno tante zone paesaggisticamente diverse composte di caratteristiche specifiche a seconda dell’area presa in esame. Senza dubbio siamo di fronte a pittori orgogliosi della loro appartenenza a questa terra e ai suoi piccoli e grandi i riti sociali (si veda Il Ponte Vecchio a Firenze di Telemaco Signorini, che era andato perduto), o comunque pittori che pur non essendo nati in questo territorio ne sono infine rimasti colpiti e affascinati per sempre: così quello che si offre – in esposizione fino a settembre – al visitatore della mostra è una raccolta di assoluto valore degnamente espressiva di quello che storicamente diventerà, anche per i detrattori della prima ora, il più originale contributo dell’arte italiana al secolo diciannovesimo.

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