LE TRE ARMI IMPUGNATE DAL CALIFFATO

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Maurizio Molinari
Maurizio Molinari

Riprendiamo dalla STAMPA di ieri, 08/01/2017, il commento del direttore Maurizio Molinari (pagg.1/23):

“Mettendo a segno una raffica di attentati e azioni militari in tre Continenti nell’arco di appena 21 giorni lo Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi si è affermato come lo spietato protagonista del passaggio al nuovo anno: si tratta di un prepotente ritorno che smentisce chi lo aveva frettolosamente descritto in dissoluzione, travolto dalle pesanti sconfitte subite sul terreno in Iraq, Siria e Libia nel corso del 2016.

L’analisi degli attacchi jihadisti suggerisce che la forza del Califfato si genera da tre motivi convergenti: abilità tattica nella guerra del deserto, presenza di efficienti network salafiti in più Paesi ed una feroce carica ideologica. L’abilità tattica è dimostrata da quanto avvenuto a Palmira, dove l’11 dicembre Isis ha costretto alla fuga i reparti russi e siriani grazie ad un attacco progressivo ovvero messo in atto con raid dalle periferie di piccole unità in rapido aumento, e da quanto sta avvenendo a Mosul, dove i jihadisti resistono con successo all’assedio iniziato in ottobre da iracheni, curdi e milizie sciite grazie all’uso massiccio di cecchini ed autobombe che ha decimato la «Golden Brigate» – le unità scelte di Baghdad – obbligando il premier Haider al-Abadi a ripiegare, inviando in prima linea la polizia. A queste ammissioni di debolezza da parte di Baghdad, il Califfo ha reagito moltiplicando gli attentati: con le autobombe nel mercato sciita di Sinak nella capitale e l’assalto al quartier generale della polizia a Samarra per un bilancio di quasi cento morti che ha fatto apparire le roccaforti del governo più vulnerabili di quelle jihadiste.

Nelle guerre del deserto il conflitto è permanente, non vi sono scontri decisivi e ciò che conta è fiaccare al massimo il nemico per guadagnare tempo e  spazio: è una tattica tribale nelle quale i jihadisti del Califfo eccellono, guidati da ex ufficiali di Saddam Hussein addestrati alla guerriglia che possono contare sulla manovalanza delle tribù sunnite dell’Anbar, timorose della pulizia etnica condotta contro di loro dai reparti sciiti che rispondono agli ordini di Qassem Soleimani, capo della Forza Al Qods dell’Iran.

La presenza di network salafiti dormienti ed efficienti è dimostrata dall’attacco del 20 dicembre contro il castello di Karak, nella prima azione coordinata di un commando nella vulnerabile Giordania di re Abdallah, come anche dalla capacità dei singoli jihadisti di Berlino e Istanbul di colpire, sopravvivere all’attacco e darsi alla fuga grazie a una evidente rete di sostegni che attraversa l’intera Europa, dalla Manica al Bosforo. Per non parlare dell’attacco degli Al Shabaab, somali – che aderiscono a Isis – contro l’aeroporto di Modagiscio adoperato dalle forze speciali anti-terrorismo di più Paesi occidentali.

Ma è il terzo elemento – la ferocia della carica ideologica – a indicare ciò che più sostiene il Califfato jihadista a dispetto delle ingenti perdite di territorio, uomini e mezzi subite da Ramadi a Tikrit, fino e Sirte. A suggerire di cosa si tratta è la sequenza fra l’attentato di Anis Amri sulla Breitscheidplatz di Berlino nel giorno di Natale e la strage al nightclub Reina di Istanbul nella notte di Capodanno: il bilancio complessivo di almeno 52 vittime e 126 feriti nasce dalla volontà del Califfo di portare la morte in coincidenza con le feste che più rappresentano la Cristianità. Il Califfato impedisce di celebrarle sui suoi territori perché le considera un’offesa all’Islam, ed ora dimostra di riuscire ad aggredirle anche sui territori di Stati occidentali «infedeli» e musulmani «apostati».

E’ come se la legge della Jihad riuscisse a imporsi ovunque, umiliando i cristiani in Occidente come già avviene nel mondo arabo. In questa maniera il Califfato rafforza la propria legittimità, basata sulla violenza, agli occhi dei seguaci e moltiplica la capacità di reclutamento da cui dipende l’alimentazione della propria guerra permanente. A confermare la capacità di penetrazione ideologica del Califfato c’è l’assassinio ad Ankara dell’ambasciatore russo Andrey Karlov perché il killer, un ex agente della sicurezza di Recep Tayyp Erdogan, prima di sparargli ha urlato «Allah hu-Akbar» richiamandosi alle vittime di Aleppo ovvero uno dei campi di battaglia jihadisti.  Che il killer fosse o meno dell’Isis conta assai meno del fatto che ne ha, de facto, espresso il credo ideologico al momento del «martirio».

Se il Califfo riesce a cogliere tali e tanti risultati è anche a seguito di errori e mosse false dei suoi maggiori avversari, a cominciare dagli Stati Uniti. Il presidente americano Barack H. Obama ha condotto contro Isis dal giugno del 2014 la più inefficace delle campagne aeree e nelle ultime settimane di mandato non ha accresciuto la pressione militare, continuando ad avere un basso profilo contro il terrorismo jihadista e preferendo agire per indebolire politicamente due Paesi – Israele e Russia – molto esposti nel combatterlo. Quali che siano i motivi di tali iniziative di Obama, l’impatto in Medio Oriente è stato di confermare il distacco Usa dal conflitto contro Isis. L’interrogativo è se il successore, Donald J. Trump, dal 20 gennaio vorrà e saprà rovesciare tale approccio restituendo all’America il ruolo di Paese leader nella guerra ai jihadisti frutto dell’attacco subito I’11 settembre 2001: assegnando alla Nato la nuova missione di cui ha bisogno per tornare protagonista, rafforzando la cooperazione strategica con Israele e coniando un’intesa proprio con la Russia di Vladimir Putin, trasformandola da avversario nel cyberspazio ad alleato nel conflitto del deserto per sconfiggere il Califfo del terrore.”.

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