“L’UOMO CHE VIDE L’INFINITO”. QUANDO IL CINEMA RACCONTA LA FEDE DEGLI SCIENZIATI (di Omar Ebrahime e David Taglieri)

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Locandina del filmAnche la produzione del cinema contemporaneo a volte propone riflessioni controcorrente sulla trascendenza e in particolare sul rapporto tra scienza e fede, uno dei più discussi e controversi dai tempi dell’illuminismo a oggi.

Il fatto è che, come noto, attualmente nella mentalità comune si dà per scontato che i veri scienziati, e fra questi i grandi geni soprattutto, siano e siano stati sempre atei o agnostici, comunque non credenti. In realtà il bravo scienziato – matematico, fisico, chimico o altro che sia – è colui che fa della ricerca senza fine il primo e più importante obiettivo del suo lavoro e quindi non dovrebbe escludere mai, e meno che mai ‘a priori’, l’esistenza di Dio.

L’uomo che vide l’infinito, ora nelle sale italiane, è un racconto appassionante e, a quanto pare, piuttosto fedele alla realtà, della straordinaria biografia umana e professionale di Srinivasa Ramanujan, il matematico indiano autodidatta che dalle poverissime strade di Madras fu chiamato a studiare alla mitica Università di Cambridge, dove nel giro di pochi mesi lasciò a bocca aperta tutti i professori che lo esaminarono tanto da essere proposto – evento altrettanto eccezionale, se non unico nella storia dell’alta istruzione scientifica – come ‘docente incaricato’ dell’ateneo ad appena trent’anni.

La pellicola (regia di Matthew Brown,  durata 108 minuti) si basa su una biografia omonima nel titolo dallo scrittore statunitense Robert Kanigel (L’uomo che vide l’infinito. La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica, pubblicato in Italia da Rizzoli) e vede la partecipazione di attori come Dev Patel, nel ruolo del protagonista, e Jeremy Irons che impersona il professore inglese che ricevette le lettere di Ramanujan dall’India che chiedevano una borsa di studio e lo chiamò a Cambridge: Godfrey Harold Hardy.

Profondo, commovente, spunto di riflessioni ed interrogativi, il film si muove nel contesto del rapporto fra l’uomo e Dio: qui  si allacciano temi reali ed universali come l’amore, l’amicizia e la lontananza dagli affetti. Al centro della scena c’è lui, Ramanujan, genio della matematica autodidatta, capace di entusiasmarsi per le formule matematiche e per l’empirismo dei numeri, trasmettendoci la verità della matematica e così anche la verità delle cose (dell’universo) dentro la scienza. Per l’indiano però la matematica non è astratta, anzi è un settore attraente che coinvolge noi comuni mortali orizzontalmente e ci collega a Dio verticalmente: di fatto, per spiegare anche il significato del titolo del film, Ramanujan vide l’infinito nel senso che intuì le soluzioni alle più grandi questioni della teoria matematica del tempo, come un filosofo può intuire che Dio è trascendente e altro rispetto al mondo. Volendo dirla con un paradosso: Ramanujan vide le soluzioni perché vedeva, cioè credeva in Dio. Una matematica senza tensione verso l’assoluto non lo avrebbe probabilmente interessato, anzi l’avrebbe forse combattuta tenacemente come si vede in una delle scene-culmine del film quando irritato dalle continue critiche di Hardy gli risponde di getto esclamando tra lo stupefatto e l’arrabbiato: “Lei non crede in niente Professore […] lei è un uomo senza fede!”.

Il profilo dello studente indiano che entrerà in seguito nei libri di storia di teoria matematica esce insomma dallo schema stereotipato dello scienziato un po’ pazzo tutto ‘genio e sregolatezza’, alienato dal mondo, al contrario: egli ama l’amore e la famiglia (è sposato con una giovane indiana), l’amicizia, il suo Paese, ma sente attraverso la preghiera la forza e la direzione della sua missione. Le domande fondamentali sul mistero dell’universo davanti all’uomo-scienziato emergono in modo molto delicato e quasi inatteso per lo spettatore del film, che si vede ribaltato in un mondo (la cultura accademica britannica di primo Novecento) già intrisa di materialismo e scetticismo scientista al suo interno e ‘scossa’ – paradossalmente – da un ragazzo indiano che sorprendentemente sembra arrivato dall’altro capo del mondo per riportare la domanda delle domande, quella sull’esistenza di Dio, al posto che le spetta da che mondo è mondo, cioè il primo.

Il risultato alla fine sarà che sarà lo stesso Hardy, perorando la candidatura di Ramanujan nel corpo docente di Cambridge, a dichiarare commosso che anche se egli personalmente resta legato alla sua incredulità, il fatto che possano esistere al mondo dei geni naturali autodidatti come Ramanujan lo spinge a prendere seriamente in esame la possibilità che Dio forse esista davvero e si manifesti a noi nonostante tutto. Tutt’intorno intanto è un’intera civiltà che entra in crisi con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che arriva a Londra e non può non toccare anche la vita comune precedentemente tranquilla del College: alcuni docenti saranno chiamati al fronte e la stessa salute di Ramanujan – per altri motivi,  che qui non menzioniamo – peggiorerà gravemente. Alla fine, al freddo e distaccato Hardy non resterà che l’affetto umano, prima ancora che intellettuale, del suo giovane studente asiatico, una scoperta che – come dichiarerà molti anni più tardi – gli avrà cambiato il modo di guardare alla vita. Un film di ambientazione storica decisamente riuscito nella ricostruzione dell’atmosfera culturale dei primi decenni del Novecento, che si presta a un pubblico ampio purchè curioso di conoscere, con accenni e rimandi notevoli a questioni spirituali ed esistenziali che spesso vengono messe fra parentesi nella produzione più commerciale contemporanea.

Da vedere, magari insieme a chi pensa che scienza e teologia siano discipline talmente opposte che non s’incontrano mai, se non nelle storie romanzate e con l’uso di tanta fantasia.

Omar Ebrahime – David Taglieri

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