MICHELANGELO, UN ARTISTA UNIVERSALE (di Omar Ebrahime e David Taglieri)

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Insegna della mostra (1) Da qualche tempo l’Italia è una Nazione bistrattata dagli stessi italiani, che mossi spesso istintivamente da campagne mediatiche persuasive e martellanti la paragonano superficialmente (giudicandola persino inferiore) a realtà nordiche forse in generale più efficienti per qualità dei servizi pubblici, ma che quanto a glorie passate e memorie storiche sul proprio territorio obiettivamente distano – come si suol dire – almeno mille miglia dal patrimonio complessivo dei tesori conservati nella nostra Penisola. Tra i tanti, innumerevoli esempi che si potrebbero citare, la mostra su Michelangelo Buonarroti (1475-1564) con circa settanta opere in scena ai Musei Capitolini a Roma in questi giorni (1564-2014, Michelangelo – incontrare un artista universale), in occasione del 450’ anniversario della morte dell’artista toscano, appare particolarmente convincente per dimostrare quanto si sta affermando. Ora, che lo scultore, pittore e architetto aretino sia ormai unanimemente riconosciuto tra gli artisti più grandi di sempre al mondo è un fatto noto e addirittura scontato. Ci si chiede però quanto oggi il suo genio parli ancora al pubblico contemporaneo (sempre più disabituato a leggere consapevolmente il proprio passato) e che cosa – in definitiva e in concreto – se ne sappia e se ne conosca mediamente. La traccia suggerita dal percorso dell’esposizione romana è che Michelangelo sia stato un artista a tutto tondo, completo (e perciò, rievocando il titolo opportunamente scelto, realmente ‘universale’) capace di conciliare l’armonia dei temi classici (si pensi, su tutti, al capolavoro del David), della romanità politica (come il Bruto, presente alla mostra) e religiosi (dal celebre Mosè all’immortale Pietà) con la genialità del suo scalpello ispirato dalla curiosità del sapere figlia della passione di costruire con sapienza ed intelligenza le sue opere. Lavori che sono certamente frutto di disciplina, analisi e studio approfondito, ma soprattutto il risultato di una ecletticità formidabile che hanno portato lo scultore ad occuparsi praticamente di tutti i campi dello scibile umano. Da lavoratore certosino della materia grezza proiettava le immagini della sua mente nel marmo, da pittore riportava su tela le sue impressioni basate sull’osservazione del dato reale trasfigurato e sulla rievocazione dei grandi sentimenti umani, alla scuola e alla meditazione assidua della Rivelazione e della storia della Salvezza. Eppure, la sua vita non era stata affatto facile. Il padre era allora podestà di Caprese ma viveva in effetti in una condizione di perenne indigenza, cosa che non gli permise di vivere un’infanzia serena. Anzi, poco dopo, ad appena sei anni, perdette la madre e così dovette essere cresciuto da una balia.

Dalle sue lettere (in parte esposte) si evince che la sua vita fu tutta dedicata all’attenzione per i suoi famigliari, cercando di risollevarne le sfortune economiche e materiali. La sua era vocazione che nasceva dalla mente e dall’anima, tesa a rappresentare artisticamente quel mondo interiore animato dalla fede e quell’universo nobile di valori e prospettive che si portava dentro. Ciò convinse suo padre ad affidarlo ad appena 13 anni, nel 1488, al pittore Domenico Ghirlandaio – già maestro di bottega a Firenze e ritrattista affermato nell’alta società – per imparare l’arte raffinata del dipingere. Da lì passerà poi al giardino mediceo di San Marco (una sorta di accademia d’arte umanistica ante litteram diretta e finanziata in una sua proprietà da Lorenzo ‘il Magnifico’) sotto la guida – come scultore – di Bertoldo di Giovanni (1420-1491). Qui riuscì così con  abilità a guadagnarsi il favore dello stesso Lorenzo de’ Medici, oltre ad entrare in amicizia con il poeta Agnolo Poliziano (1454-1494). E fu proprio quest’ultimo ad ispirargli la Centauromachia, un notevole rilievo su marmo raffigurante l’antico mito greco (la battaglia fra Centauri e Lapiti cantata anche da Ovidio), oggi alla Galleria Buonarroti a Firenze che è tra le opere più significative del suo periodo giovanile, insieme alla Madonna della Scala del 1491 (pure in marmo) che campeggia all’ingresso dell’esposizione.

Con il successore di Lorenzo, Piero de’ Medici, Michelangelo non si trovò invece a suo agio e abbandonò dopo poco la città, ormai in piena decadenza e preda di continui stravolgimenti politici e sociali (è il periodo della discesa di Carlo VIII e della successiva rivolta guidata da Girolamo Savonarola). Così, dopo una breve parentesi a Bologna (1494-1495), l’artista svolgerà gran parte delle sue realizzazioni in lunghi soggiorni a Roma, soprattutto al servizio del mecenatismo pontificio, prima sotto Giulio II (1503-1513) per cui affrescherà il ciclo grandioso di storie della Genesi che adorneranno la volta della Cappella Sistina, poi sotto Paolo III (1534-1549), per cui realizzerà il Giudizio Universale nella parete di fondo della Cappella stessa. Nello stesso periodo realizzerà anche la trasformazione della piazza del Campidoglio che oggi fa da ideale sfondo panoramico alla mostra capitolina, ristrutturandola sull’attuale pianta di forma trapezoidale. E, ancora, dal punto di vista architettonico metterà mano anche al completamento della facciata e del cortile di Palazzo Farnese (attualmente sede dell’Ambasciata di Francia in Italia), nuovamente alla basilica di San Pietro in Vaticano (che tuttavia sarà poi fortemente rivista da Carlo Maderno, nel secolo successivo) e anche a una ristrutturazione di Santa Maria degli Angeli, accanto alle Terme di Diocleziano. Come sottolineano i pannelli del percorso espositivo, inoltre, l’evento biografico più importante più importante della seconda parte della vita di Michelangelo sarà l’amicizia con la marchesa di Pescara Vittoria Colonna (1490-1547), poetessa e letterata, con cui intrattenne un significativo scambio epistolare, e che lo introdusse nel circolo viterbese del cardinale inglese Reginald Pole (1500-1558), allora animatore di una delle correnti di riforma dette ‘spirituali’ che propugnavano un deciso ritorno ai fondamentali della fede e figura di primo piano dell’età tridentina. Probabilmente anche per questo gli ultimi anni saranno caratterizzati dalla riflessione reiterata sulla dimensione del tempo e sull’eternità, segnando un sensibile cambio di passo anche nella poetica dell’artista che si avvicina così a una riflessione più meditata e persino più autocritica, arrivando a giudicarsi piuttosto severamente, ma confermando invece ai posteri proprio con ciò quello che da sempre è tipico dei veri geni: guardare all’ultima opera della vita come fosse l’inizio della carriera di un apprendista neofita.

                                                                                 

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