SUL “SUICIDIO ASSISTITO” DI LUCIO MAGRI (di Guido Verna)

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Il “suicidio assistito” che Lucio Magri ha scelto qualche giorno fa per porre termine alla sua vita, sta suscitando un ampio dibattito, come giustamente deve accadere quando sono in questione elementi “essenziali” dell’uomo.

La pietà e il rispetto che si devono ad ognuno mi pare che in tale dibattito — almeno per quanto ne so — siano felicemente diffusi e mi permettono, nello stesso spirito, di fare qualche considerazione in una prospettiva più nascosta.

La lettura che generalmente viene data della “scelta” — considerandola, cioè, come comprensibile esito di una depressione non più sopportata  — mi sembra, nei confronti di Magri, paradossalmente ingiusta e sminuente tanto il ruolo “culturale” che si era configurato quanto la sua vita, coerentemente conseguente.

Per cogliere più profondamente la portata del gesto, rimando ad un acuto saggio di Alfredo Mantovano, Il suicidio come esito coerente del parossismo rivoluzionario, pubblicato quasi trent’anni fa su Cristianità (n. 101-104 del 1983) — da cui traggo tutte le citazioni —, che prendeva le mosse da un libro di grande successo intitolato Suicidio: istruzioni per l’uso e scritto da Guillon e Le Bonniec, due giornalisti vicini a Liberation, l’organo dei comunisti extraparlamentari parigini, uscito un anno prima e già alla terza edizione.

Nel libro — che, scrive Mantovano, «[…] ha il suo pezzo forte nel decimo capitolo, intitolato “Elementi per una guida al suicidio” », si potevano leggere affermazioni molto franche, senza “vestimenti” retorici. Come questa, ad esempio:  «[…] vogliamo tutto: l’aborto senza rischi né fastidi, il piacere senza punizione, e la morte la vogliamo sicura e dolce. La libertà non ha prezzo, e non intendiamo pagare quello della sofferenza. Dell’affermazione del diritto a una morte volontaria facciamo un’arma contro i ladri della vita».

O come quest’altra: «[…] la lotta del popolo per i suoi diritti è una realtà, la realtà. In essa la rivendicazione del diritto al suicidio ritrova le sue origini popolari e libertarie, nascoste dalla storiografia ufficiale».

I grandi maestri della Rivoluzione, d’altra parte, avevano ampiamente e con precisione tracciato il solco.

Marx, nel suo poema — sì, Marx scriveva anche poesie, benché poco gettonate dai suoi adepti — Oulanem, scriveva — anche qui, senza artifici o giri di parole — «Se ci fosse un abisso ove tutto s’annientasse,/Mi ci precipiterei/A rischio di distruggere il mondo/Che si interpone tra di noi. Questo mondo,/si spezzerebbe/ Sotto le mie maledizioni,/Stringerei nelle mie braccia la dura realtà,/Che perirebbe soffocata dalla mia stretta./Affondare nel nulla e annientarsi del tutto,/Questa sarebbe vera vita! ».

Engels — il coautore del Manifesto — da parte sua descriveva così la sua concezione della vita umana: «Ormai  non si può più considerare scientifica una fisiologia […] che non comprenda che la negazione della vita è contenuta come principio nella vita stessa, cosicché la vita è sempre concepita in rapporto al suo esito ineluttabile e presenta, fin dal suo embrione, la morte. La concezione dialettica della vita porta proprio a questo».

È il lungo filo “rosso” filo-suicidario quello che, attraverso Marx e Engels, va dal Rinascimento di Michel de Montagne — che nel secolo XVI asseriva: «La morte volontaria è la più bella. La vita dipende dalla volontà altrui, la morte dalla nostra» — fino al socialismo di Jacques Attali, il consigliere di Mitterand — il quale nel 1981 sosteneva con chiarezza solare che «la logica socialista è la libertà e la libertà fondamentale è il suicidio. Il diritto al suicidio, diretto o indiretto, è dunque un valore assoluto in tale tipo di società» — quello di cui bisogna tenere conto nella valutazione della scelta di Magri.

Sembrerà un paradosso, ma bisogna tenerne conto proprio per non fargli torto. A mio parere, è un atto di onestà. Non è morto un debole, ma un rivoluzionario.

2-12-2011

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