UNIVERSITA’ ISLAMICA A LECCE? LA RIFLESSIONE DI ALFREDO MANTOVANO

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TAGIKI~1  Premetto che mi avvicino alla questione con una certa curiosità. Nella esperienza di governo al ministero dell’Interno ho avuto l’opportunità – mentre era ministro Maroni – di coordinare nel biennio 2010-11 i lavori del Comitato per l’Islam italiano, composto per la metà da musulmani provenienti da varie comunità italiane e per metà da studiosi dell’Islam, accademici e non. Più volte ho avuto contatti con realtà islamiche di nazioni del Sud del Mediterraneo o dell’Oriente, vicino e lontano. Poiché si tratta di realtà variegate e complesse, il tentativo di conoscerle in modo adeguato passa necessariamente dalla disponibilità di informazioni: e sono proprio le informazioni a mancare – o ad apparire scarse e sommarie – nel caso di Lecce. Prima di manifestare larga apertura alla realizzazione dell’“università islamica” nella nostra città in nome dell’accoglienza e del dialogo o, al contrario, di esprimere la più netta chiusura, in nome dell’identità e della tradizione del territorio, è forse il caso di avere un po’ di dati sulla natura e sulle caratteristiche che dovrebbe avere questo insediamento. È forse il caso, cioè, di giocare a carte scoperte: se da parte del territorio non sta bene evocare norme urbanistiche o sanitarie o di viabilità – che, per carità, vanno rispettate da tutti – per manifestare una contrarietà che si basa su ragioni ideologiche o confessionali, da parte di chi ha annunciato l’iniziativa va spiegato nel dettaglio di che cosa si tratta. Giocare a carte scoperte significa non dimenticare che fra i pilastri del nostro ordinamento vi sono la libertà religiosa, la libertà di insegnamento e di apprendimento, e la libertà di impresa; in un sistema nel quale i diritti di tutti sono garantiti dal mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico.

Con riferimento alla realtà italiana, l’espressione “università islamica” è misteriosa: a mia scienza, in nessun luogo d’Italia esista qualcosa che abbia questa denominazione, e che quindi costituisca un termine di raffronto. Certo, esistono le moschee: pochissime “regolari” e una grande quantità improvvisate. Esistono i luoghi di culto. Esistono, in genere all’interno delle moschee, dei “centri culturali”; anzi, spesso accade che venga aperto formalmente un “centro culturale” e il venerdì successivo ci si accorga che viene adoperato come una moschea. Ripeto: non esiste in Italia, che io sappia, una “università islamica”.

Prima domanda: poiché il termine “università” ha un significato preciso, quanti corsi di studi ci saranno, quali saranno i piani di studi, in che cosa ci si laurea? Dalle cronache leggo che verrebbe insegnata, fra l’altro, la sharia: in modo completo e acritico? Mi spiego: la si studierebbe come oggi nelle facoltà di giurisprudenza si studia il diritto romano – e cioè come qualcosa che appartiene alla storia e non alla attualità – o come oggi nelle facoltà di giurisprudenza si studiano diritto privato e diritto pubblico, che sono diritto vivente? E, passando dai contenuti alla forma – ma fino a un certo punto – la seconda domanda: il regime di questa “università” sarebbe teso a ottenere qualche forma di riconoscimento dall’ordinamento degli studi italiano o conferirebbe un titolo conclusivo non spendibile? Che uso farebbe del suo titolo chi si “laurea”? Il riconoscimento presuppone un lavoro di confronto serio fra la nuova struttura e le istituzioni italiane: serio e difficile, visto che con le comunità islamiche in Italia, per ragioni oggettive, mancano quelle “intese” che invece regolano i rapporti con altre confessioni religiose.

Ma i problemi esistono anche se l’istituenda “università” opta per un regime totalmente privatistico. Chiedo a chi intende promuoverla: io potrei iscrivermi? E, inscrivendomi, potrei rivolgere la parola alla mia vicina di banco, o salutarla stringendole la mano? Non è un quesito fuori luogo: in più di un incontro istituzionale avuto in passato con rappresentanti di Paesi islamici sono stato previamente dissuaso dallo stringere la mano in segno di saluto a donne che, magari come interpreti, componevano la delegazione. Avverrebbe qualcosa del genere all’interno dell’“università islamica”? Per rispondere – per capire cioè non se io posso stringere la mano a una donna, ma se al suo interno vi sarà pari dignità fra uomo e donna – è essenziale leggere lo statuto del nuovo ateneo: esiste? È disponibile alla consultazione di chi ne sia interessato? Se esiste, viene chiesto un atto di impegno a seguire regole di comportamento dentro l’“università”, così come accade in larga parte delle università non statali? Poterlo consultare, se c’è, permetterebbe di capire qualcosa in più.

Giocare a carte scoperte impone per lo meno tre ulteriori chiarimenti:

 1) si è letto della previsione all’interno dell’“università islamica” di luoghi di culto: ciò trasformerebbe il terreno sul quale avviene il culto in un luogo sacro, in quanto tale intangibile, e di questo non si può non tenere conto;

 2) quali sono le fonti finanziarie? non si tratta di guardare con sospetto al nuovo insediamento. Si tratta, visto che si legge di decine di milioni di euro che verrebbero investiti, di capire da dove provengono queste somme (l’autofinanziamento dei fedeli del luogo è qualcosa di diverso da denari corrisposti da Stati islamici) e quale è la struttura societaria della Confime, che realizzerebbe l’operazione: ha sede in Italia, ha partecipazioni o quote italiane o di altri? e di chi? Questo per praticare nei confronti di chi sta assumendo l’iniziativa il medesimo tratto che si usa verso qualsiasi tipo di investimento, religioso o laico;

 3) si è letto pure di collegamenti da stabilire con università di Paesi islamici: si può sapere quali? Giusto per avere chiarezza sul network in senso lato culturale di riferimento.

Per concludere: prima di valutare, e se del caso di preoccuparsi, è indispensabile conoscere. Si attendono notizie.

 

 

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