DALLA FEDE UNA CULTURA VERSO UNA SOCIETA’ CRISTIANA (di Marco Invernizzi)

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Nel prossimo numero di Cristianità troverete un breve saggio di Ignazio Cantoni sul rapporto che esiste fra l’annuncio e l’adesione alla fede cristiana con la cultura e la civiltà che possono nascere dalla stessa fede.

Spesso nella storia della Chiesa si è tentato di interrompere questo legame per diverse ragioni. Alcuni lo fecero per ragioni ideologiche, perché credevano in un cristianesimo disincarnato capace di adattarsi a ogni sistema culturale e politico, una sorta di “religione minima” che investe solo l’interiorità dell’uomo e non si preoccupa di costruire un mondo a misura dell’uomo convertito. Tipico di questa posizione è il rifiuto della Chiesa costantiniana, cioè di quel modo di inculturare la fede che ha costruito quella particolare società cristiana che ha segnato la storia dell’Occidente. Ma, seppure in maniera culturalmente diversa, la fede ha generato altre cristianità, per esempio la lunga e gloriosa cristianità bizantina.

Altri rifiutano questo legame tra fede e cultura in nome delle vicende tristi e antievangeliche che hanno segnato le cristianità storiche, per esempio le guerre non sempre solo difensive, la corruzione, l’imposizione violenta della stessa fede. Sono meno colpevoli in quanto meno ideologici, perché il loro rifiuto della cristianità nasce da motivi storici, dagli scandali e dagli errori commessi dai cristiani. Tuttavia, mai la Chiesa ha confuso il cristianesimo con le cristianità, il Vangelo con le realizzazioni storiche in suo nome, che spesso lo hanno messo da parte o addirittura contraddetto. Nessuno ha mai pensato di confondere il Sacro Romano Impero con la Gerusalemme celeste.

Altri lo fanno perché temono il legame fra la Chiesa e uomini pubblici e potenti, in primis oggi Putin e Trump, che sono considerati come alleati ambigui e nocivi alla Chiesa stessa. Peraltro, questi stessi non si sono mai chiesti perché hanno dato storicamente il loro sostegno, o almeno la non belligeranza, a personaggi che si sono rivelati certamente più nocivi alla libertà della Chiesa, come per esempio Fidel Castro a Cuba e più recentemente Hugo Chavez in Venezuela, che sta proprio in questo giorni scontando la folle demagogia del dittatore bolivariano che riuscì a sedurre tanti cattolici.

La fede che investe tutto l’uomo e lo trasforma a immagine di Cristo cambiandone i criteri di giudizio e quindi facendo sorgere una cultura e, se Dio vuole, anche una civiltà cristiana, serve anzitutto ai piccoli, ai poveri, ai cristiani di tutti i giorni come siamo noi. Lo spiegano bene il cardinale Jean Danielou e San Giovanni Paolo II opportunamente citati nel saggio di Ignazio Cantoni, laddove viene implicitamente ricordato che i santi “se la cavano sempre” in qualsiasi società siano inseriti, anche la più atea e persecutoria. Anzi, è proprio in queste società che emergono le vocazioni eroiche che ci hanno dato i martiri e i grandi testimoni. Questi ultimi, di per sé, non avrebbero bisogno di alcuna cristianità a differenza di noi, piccoli e poveri, deboli e incapaci di resistere alla pressione psicologica e spesso anche fisica che proviene da una società e da una cultura ostili.

Scrivo queste cose solo per ricordare un aspetto che la Chiesa ha sempre ricordato e consapevole del rischio che una prospettiva di questo genere possa degenerare in una ideologia, che dimentica come siano l’amore e la fede dei singoli uomini che generano quei processi (rubo l’espressione a Papa Francesco) attraverso i quali venne e continua a venire data la possibilità di incontrare il Salvatore a tanti uomini. E, storicamente, le cristianità muoiono, come la nostra in Occidente, sostanzialmente quando questa passione verso i più umili fra gli uomini viene meno, come conseguenza dell’affievolirsi della fede che aveva dato origine alla cristianità stessa.

Ma scrivo queste considerazioni anche davanti alla constatazione di come sia lontana dal sentire di molti cattolici di oggi la consapevolezza della necessità di costruire un mondo storico che aiuti la fede dei piccoli e dei poveri, una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio, come disse San Giovanni Paolo II. Una ripresa missionaria del cristianesimo nella vecchia e secolarizzata Europa, come auspica frequentemente il Santo Padre e come risulta implicito nella costituzione nel 2010, non un secolo addietro, del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, non può prescindere dal legame tra fede e cultura, cioè dal rilancio della dottrina sociale della Chiesa come strumento di analisi e di giudizio del mondo contemporaneo e dei suoi errori, e come premessa necessaria per l’azione pubblica dei cattolici.

Quest’ultima può fallire per la difficoltà dei tempi e per la sopraffazione dei nemici, ma può fallire, come sta accadendo, semplicemente perché viene esclusa a priori perché accusata di “integralismo” o peggio. Certo, può fallire anche quando viene usata male, per esempio assumendo i singoli princìpi della dottrina sociale staccati e dialetticamente contrapposti uno all’altro, come sta purtroppo accadendo quando vediamo contrapporsi i “cattolici della vita” contro quelli “dei migranti”, quando invece non sarebbe difficile valutarne l’importanza e la rispettiva collocazione gerarchica per il bene comune all’interno dell’insieme della dottrina sociale della Chiesa.

Perché una prospettiva di rinascita missionaria non fallisca necessitano comunque alcune cose.

  1. Che la dimensione missionaria entri veramente nella consapevolezza dei cattolici, a cominciare dall’insegnamento costante dei pastori, nelle diocesi e nelle parrocchie, come nelle associazioni e nei movimenti.
  2. Che la dottrina sociale venga studiata e diventi il criterio di giudizio dei cattolici.
  3. Che non si abbia troppo timore di contrapporsi alla cultura dominante e ai relativi poteri forti di questo mondo, commettendo lo stesso errore di 50 anni fa, quando un insieme di furbizia e di infatuazione ideologica verso comunismo e progressismo diedero inizio a una stagione di subordinazione culturale e politica, drammatica e devastante per la Chiesa, di fronte alla rivoluzione antropologica e culturale del Sessantotto.
  4. Che non si pensi di poter diffondere la fede e costruire un mondo ispirato al Vangelo ritornando indietro nel tempo, perché alla deificazione del futuro non si risponde con la deificazione del passato, ma con la costruzione paziente e determinata di uomini che possano dare vita a un “mondo migliore”, quando Dio ne creerà le condizioni.

 

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