EUROPEE: UN VOTO PER L’IDENTITA’

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bandiere-1850619La vittoria delle destre alle elezioni europee del 6 e del 7 giugno 2009 non è stata tanto roboante come all’inizio l’hanno presentata mass media e commentatori politici. Ed infatti il generale calo dei socialisti è stato compensato, almeno in parte, dal successo dei verdi e di altre formazioni della sinistra. E’ comunque incontestabile che la tendenza elettorale europea si sia spostata verso il centro-destra, con un discreto successo anche per quelle formazioni che con tono sprezzante vengono definite “xenofobe”. In effetti pure il buon risultato dei Popolari Europei si fonda su una posizione di prudenza rispetto al tema dell’immigrazione e del multiculturalismo invocato dalla sinistra.

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Insomma nonostante milioni di europei non si siano nemmeno recati alle urne e nonostante la gravità della crisi economica in atto, si evince e vince una sensibilità attenta ai valori cristiani e identitari espressi soprattutto dal PPE (Partito Popolare Europeo).

All’interno di tali valori cristiani trova posto  sicuramente il principio di solidarietà, che però non è suscettibile di essere interpretato a senso unico, e cioè qu ale indiscrimin ata apertura a tutto e a tutti. Regolare i grandi flussi migratori costituisce la sfida del domani, ma per vincerla non è necessario, – né forse possibile – far entrare tutti, in modo indiscriminato, nella casa comune. Il rischio è quello di far crescere sacche di criminalità e imp edire una reale integrazione delle genti. Chi arriva in Europa deve essere messo in grado di assimilare la cultura occidentale e non  venire relegato in enclaves etniche spesso impenetrabili e serbatoio di potenziale scontro sociale.

Anche il tema relativo all’ingresso della Turchia in Europa sarà oggetto di probabile rivisitazione da parte del  nuovo parlamento di Strasburgo. Non solo la Lega Nord in Italia, ma soprattutto il presidente Sarkozy in Francia, si oppongono con decisione a tale ingresso nell’U.E. (nonostante le forti pressioni del presidente degli Stati Uniti Barak Obama).

D’altronde il grado di libertà religiosa – fondamento di ogni altra libertà – che la Turchia oggi garantisce al suo interno non è mai andato oltre le parole: il rifiuto di riconoscere il genocidio armeno è un segno della determinazione del governo turco a non applicare la libertà religiosa nel suo territorio. Gli accordi del 1923, che prevedevano il riconoscimento giuridico delle Chiese e altre misure di protezione delle minoranze etniche, non sono stati messi in pratica. In questo periodo, al contrario, decine di migliaia di Greci sono stati espulsi, mentre nuovi ostacoli si aggiungono a ciò che resta della vita cristiana in questo Paese, che è membro attivo dell’Organizzazione della Conferenza Islamica. Negli anni ’70 vi erano 70.000 Cristiani siriaci nella regione della Mesopotamia turca, situata tra il Tigri e l’Eufrate. Oggi ve ne sono appena 2.000. Del centinaio di monasteri che vi erano nella regione, ne rimangono solo quattro ancora attivi (“Bulletin de l’Etude du Christianisme des Origines”, aprile 2009).

Il parlamento europeo che esce dalle urne avrà le carte in regola – e i numeri! – per decidere con prudenza su questi due importanti temi: politiche comunitarie sull’immigrazione e apertura alla Turchia.

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