FEDERALISMO: ORIGINE STORICA DEL DIBATTITO (Corriere del Giorno, 24 marzo 2006, pag.6)

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carloalberto.jpg DUE NUOVE BIOGRAFIE SU CARLO ALBERTO E CAVOUR
Sono passati più di 150 anni, ma c’è una polemica storica che tarda a morire.
E’ quella sulla nostra unità nazionale che, sia pure parzialmente, si compì nel 1860.
Se oggi il federalismo è uno degli argomenti più scottanti delle agende politiche italiane e se alla costituenda Banca del Sud viene offerta la presidenza onoraria a Carlo di Borbone, discendente della vituperata dinastia meridionale, forse un motivo vi sarà. Di fatto l’unità nazionale così come fu realizzata, da qualunque prospettiva culturale la si guardi, costituì un bel trauma per il popolo italiano. Non è esagerato dire che si trattò in fondo di una guerra civile alimentata ad arte dagli interessi economici e politici delle grandi potenze del tempo.

Così ha un senso la famosa espressione di Massimo D’Azeglio “l’Italia è fatta, restano a fare gli Italiani“: se la battaglia unitaria fosse stata davvero nazional-popolare quella forte esigenza “di fare gli Italiani” non sarebbe stata avvertita e invece il risorgimento fu, tutto sommato, roba di elites.

Insomma, come scrive Ernesto Galli della Loggia, in Italia si è fatta la storia alla rovescia: prima si è costruito uno Stato nazionale, poi si è dovuto pensare a creare una Nazione.

La produzione storiografica si arricchisce adesso di due interessanti volumi dedicati a due fra i mass imi protagonisti del risorgimento italiano. Si tratta delle recenti opere di Filippo Ambrosini, direttore della collana delle biografie storiche per le Edizioni del Capricorno di Torino: Carlo Alberto Re (2004, pagg. 416, euro 23,00) e Camillo Cavour (2005, pagg. 188, euro 13,00).

Ambrosini ci offre un taglio preciso e realistico dei due personaggi.

Il Re Carlo Alberto, il famoso “Re Tentenna”, è la chiave di volta del passaggio dall’Italia dell’Ancient Regime a quell a liberaldemocratica.

Lui, primo Carignano (ramo cadetto dei Savoia) a diventare re, fu uomo profondamente consapevole dei grandi mutamenti in atto, come si denota dalle pagine del diario e dell’epistolario che l’ Autore pone a supporto di ogni c apitolo.

Animo quindi dubbioso e scrupoloso, stante il suo cattolicesimo non di facciata ma profondamente vissuto.

Ne viene fuori il ritratto non solo di un’anima afflitta e travagliata anche nei momenti del consenso e in quelli – fugaci – della gloria, ma pure di un uomo intelligente e al tempo stesso debole, che cercò invano di conciliare diavolo e acqua santa, riponendo ogni fiducia nella vulgata – artefatta – di un Pio IX ” liberale” . In realtà quando Carlo Alberto si accorse di essere finito, legato mani e piedi, nelle mani del movimento costituzionale, il castello interiore gli crollò addosso, e non ebbe più la forza di recuperare ciò che la coscienza gli rimproverava. Le gravissime sconfitte campali di Custoza e Novara completarono l’opera.

Tutt’altra pasta di uomo e di politico fu Cavour: intrinsecamente anti-cattolico e intrinsecamente liberale. Si può dire – e Ambrosini lo delinea benissimo – che visse la sua breve esistenza con quest’unico ideale, passando come un carro armato sopra ogni cosa: intrighi internazionali e brogli elettorali, esorbitanti spese di guerra e speculazioni finanziarie.

Eppure il giudizio dell’Autore è altamente positivo: “il più grande statista della nostra storia“, come recita il sottotitolo del volume a lui dedicato.

L’opera di Ambrosini si pone dunque nel solco di quella storiografia compiacente con la borghesia “piemontese” vincitrice, che alla fine si ritrovò appunto col problema di fare gli Italiani, fatta l’Italia.

Eppure molti di quegli Italiani non stettero al gioco: non solo i federalisti legittimisti, o anche alla Gioberti, che intendevano patteggiare con l’Austria un graduale progetto federalista, piuttosto che piemontesizzare l’Italia. Ma non ci stavano neppure le decine di migliaia di cafoni meridionali che per anni combatterono Piemontesi e garibaldini, trovando la morte in un tremendo bagno di sangue; non ci stavano le migliaia di religiosi e di attivisti cattolici rinchiusi in carcere; non ci stavano i milioni di emigrati affamati che dal 1860 in poi popolarono l’America di braccia italiane.

Nella stessa Torino rimarrà San Giovanni Bosco e il suo oratorio a raccogliere dalle strade quell’immondizia umana, a cui la ricca borghesia capitalista e “massonizzante” negava non solo il voto ma pure la dignità.

Roberto Cavallo

 

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