FRA GLI “HAN” SBOCCIO’ LA RIVOLUZIONE COMUNISTA: LE ORIGINI MARXISTE DEL RAZZISMO CINESE

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Nel mondo non esiste un dibattito pubblico sul razzismo cinese, tema tabù per i mass media. A maggior ragione per Pechino, per cui il razzismo in Cina semplicemente “non esiste”; se mai, sarebbe roba di altri Stati e di altri popoli …

Eppure le cose non stanno proprio così. E a raccontarlo, in un’analisi accurata, è chi forse non te lo aspetti: Federico Rampini, ex corrispondente di “Repubblica” da New York e già inviato speciale a Pechino. Eccellente conoscitore della realtà cinese, oltre ad essere un importante giornalista (da poco passato da Repubblica al Corriere della Sera), Federico Rampini ha insegnato alle università di Berkeley, di Shanghai e alla Sda Bocconi di Milano.

Riportiamo dunque l’analisi tratta dal suo recente libro “Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente” (Mondadori, 2021, pagg. 308).

Nel primo capitolo del volume, emblematicamente dedicato a Un’idea della “razza” Han, Rampini scrive (pag. 23): “… Al tempo stesso il regime comunista avalla quell’idea di superiorità razziale perché è coerente con il progetto di restituire alla Cina il suo ruolo di sempre, la sua centralità, la sua preminenza tra le nazioni. Il nazionalismo è una costruzione abbastanza recente per il mondo intero: nasce nell’Ottocento europeo e viene importato in Asia da quelle élite che vogliono modernizzare Giappone, Cina, India. Ma il nazionalismo cinese è solo la variante contemporanea di un etnocentrismo antichissimo. Aggiunge a quel senso di superiorità ancestrale alcuni innesti recenti come il darwinismo sociale: è l’idea che la competizione economica assomiglia a quella biologica, in cui vincono sempre i soggetti più forti, i più adatti a sopravvivere. Il successo della Cina come superpotenza globale nelle esportazioni e, più di recente, la sua formidabile avanzata in campo tecnologico sono ulteriori conferme che gli altri debbono riconoscerla come una civiltà superiore.”.

E ancora: “Il razzismo che pervade il linguaggio comune e i comportamenti quotidiani prendendo di mira le minoranze è stato rafforzato nella Repubblica Popolare innestando sul mito antico della superiorità Han una patina d’ideologia marxista. Lo studioso Reza Hasmath ha rinvenuto le origini di questa visione fin dai primi anni di Mao Zedong.

Nella manualistica del regime, le molteplici etnie racchiuse nei confini nazionali, sono divise a secondo dei “modi di produzione”, un concetto che riecheggia l’analisi storica di Karl Marx. Nella successione di stadi economici, dall’umanità cavernicola al progresso, c’è dapprima il modo di produzione primitivo, poi lo schiavismo, a cui segue il feudalesimo, quindi il capitalismo e, infine, il socialismo. In questa semplificazione del pensiero di Marx, ogni gruppo etnico viene catalogato secondo lo stadio di sviluppo storico a cui era arrivato nel momento in cui la rivoluzione di Mao ha liberato tutti dalle catene dell’arretratezza.

Ma le minoranze non-Han portano nella propria cultura le tracce di quegli stadi di sviluppo “arretrati”, nei quali erano bloccate prima dell’intervento liberatore. Ecco quindi un ulteriore conferma scientifica che gli Han sono più avanti di chiunque, perché è tra loro che è maturata la rivoluzione comunista. Tutti gli altri vanno educati, illuminati, per salvarli dalle tenebre …”

Gli altri, quelli che vanno ideologicamente rieducati, sono gli uiguri, i tibetani, i cittadini di Hong Kong, i Cinesi ai confini della Mongolia e così via; ma non dite a nessuno che questo è razzismo…

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