I CAPOLAVORI DEL GUERCINO A ROMA (di David Taglieri e Omar Ebrahime)

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Se compito precipuo dell’arte è – come insegna Benedetto XVI – “attirare [gli uomini] verso la meta ultima della storia umana” (Benedetto XVI, Discorso in occasione dell’Incontro con gli artisti, Città del Vaticano, 21 novembre 2009), a volte persino una mostra esemplarmente sobria, ma evocatrice di oggettiva bellezza, su un artista – non dei più celebrati – del primo Seicento, può riuscire a riconciliarci con il nostro destino. E’ il caso di quanto viene in questi giorni esposto nelle antiche sale di Palazzo Barberini a Roma  (http://www.mostraguercino.it/mostra.php) ad opera di Giovanni Francesco Barbieri (1591-1666), nativo di Cento (Ferrara), detto il ‘Guercino’ (da ‘guercio’, ovvero affetto da strabismo fin dalla nascita). L’esposizione offre al pubblico circa quaranta tele, per due terzi di grande e grandissima dimensione, che raccolgono parte della produzione più significativa del pittore emiliano concentrandosi, oltre che sul ‘periodo del soggiorno romano’ (1621-1623) al servizio di Papa Gregorio XV, sui migliori lavori conservati tuttora nella sua Cento. Nato da un’umile famiglia e cresciuto come autodidatta, prima di mettersi alla scuola di Ludovico Carracci (1555-1619) che tanto lo influenzerà, Guercino è uno dei pittori la cui produzione artistica – fedele fin dalla prima maniera al reale e al dato di natura – non concede quasi nulla all’esuberanza personale e al gusto soggettivista che caratterizzerà buona parte delle correnti dell’ arte figur ativa europea a partire dal secolo successivo. Le sue tele, imperniate perlopiù su temi religiosi (sebbene non manchi qualche digressione nel mondo dell’antichità classica, greca e latina) e soprattutto su quell’immenso tesoro d’ispirazione artistica di tutti i tempi che è la Bibbia, spiccano oggi, anche agli occhi del visitatore più profano, per un raro senso dell’armonia e un attenzione costante, senza per questo essere maniacale, all’ordine geometrico, specchio parlante – verrebbe da dire – di un ordine interiore (la vita dell’artista, priva di eventi ‘rivoluzionari’ e condotta all’insegna di un’umile quanto regolare etica del lavoro, si concluderà a 75 anni con i conforti religiosi senza far registrare particolari ‘colpi di testa’) coltivato attentamente fin dalla prima giovinezza.

Molte le tele degne di menzione per un ideale viaggio nella bellezza dell’arte nostrana. Fra tutte, semplicemente spettacolare è il dipinto in olio su tela del 1629, conservato presso la Pinacoteca di Cento, “Apparizione di Cristo alla madre” (vedi foto allegata), dove il pittore medita su un avvenimento non presente in realtà nei Vangeli canonici ma di cui la Tradizione cristiana, fin dalla prima ora, ha sempre fatto memoria, ovvero l’apparizione del Risorto a Maria Santissima, avvenuta ben prima di quella che la cronaca storica ha riportato viceversa come ‘prima apparizione’: l’incontro con Maria Maddalena al sepolcro la Domenica dopo la Passione (cfr. Gv 20, 1-18). La figura del Risorto, pur trasfigurata, mantiene, infatti, intatta ogni umanità ed ogni compostezza mostrandosi al contempo quale Re e Signore del mondo dinanzi a cui la Divina Madre, ritratta in atteggiamento contemplativo, quasi s’inginocchia. E tuttavia, l’atto di deferenza della Madonna riesce a conservare la sua eleganza ‘celestiale’ che rimanda a sua volta al mondo di cui ella fa parte fin dall’inizio dei tempi. La Madonna è raffigurata nell’atto di abbracciare Cristo come un figlio abbraccerebbe un padre (benché il rapporto nella realtà storica della Sacra Famiglia sia esattamente l’opposto) e fermandosi – per sommo rispetto – all’altezza della vita, ma il suo gesto, che in qualsiasi altro caso apparirebbe, per l’appunto,‘di mera subordinazione’, resta comunque appena accennato trasmettendo allo spettatore la venerazione propria che si deve alla Madre di Dio, custode privilegiata e prediletta dell’Incarnazione del Verbo. Se la bellezza è davvero l’epifania dell’eterno nel mondo e lo specchio immortale di ‘ciò che occhio non vide’, difficile restare indifferenti di fronte a un simile capolavoro, frutto anche (la critica nei pannelli non lo dice ma lo spettatore lo intuisce) di una religiosità vera e di un amore autentico per il figlio di Dio fatto uomo, Gesù di Nazareth, da parte dell’artista. Come questa, molte altre composizioni esposte, frutto di una serenità interiore che, anche quando innova, non deborda mai la linea della decenza estetica ma semmai la conferma e la esalta, in una serena tensione tra classicismo e barocco. Non è un dettaglio da poco perché, dopo qualche decennio appena, l’arte comunemente intesa comincerà a farsi conturbante, misteriosa, enigmaticamente ‘afona’ aprendo alla lettura prima introspettiva e poi psicanalitica dell’io del cosiddetto artista, anziché fare riferimento al valore oggettivo e reale delle cose. Al punto che, nel Novecento, Papa Paolo VI denuncerà apertamente il drammatico ‘tradimento’ dei portatori di bellezza, sedotti dalle mode dell’effimero, richiamandoli a un’arte alta ed esigente con parole significative: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo” (Paolo VI, Messaggio agli artisti in occasione della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, Città del Vaticano, 8 dicembre 1965). Del tutto diversa, come detto, è invece la lezione di Guercino che, forte delle lezioni provenienti dal caravaggismo si guadagna fama e stima non solo in ambienti elitari e di nicchia culturale, ma riesce anche ad arrivare al popolo, colmando con strepitose iconografie l’analfabetismo-medio di allora e testimoniando esemplarmente il fatto che attraverso le pennellate si poteva giungere allo stesso tempo al cuore della gente semplice  ed alla mente delle elités. Il papato stimò in lui la maniera classica ed idealizzata mentre le commissioni romane, bolognesi e ferraresi lo fecero crescere e ne arricchirono nel complesso lo stile.

In tal senso indimenticabile appare “L’Annunciazione” del 1613, dove l’autore immagina l’attimo precedente l’incontro fra divino ed umano, prendendo spunto dai lavori del Carracci marcati da una religiosità semplice, permeata dal ritmo della quotidianità, mentre in “Sposalizio di Santa Caterina di Alessandria alla presenza di San Carlo Borromeo” (ancora 1613) l’artista riesce a cogliere degli attimi di vita autentici e sinceri, portando sulla scena degli elementi estranei fino a quel momento, come la presenza degli animali o le mura medievali della sua Cento. Interessante è poi l’opera raffigurante “I quindici misteri del Rosario e due putti alati che sorreggono una ghirlanda” (1615), dove risalta il particolare cromatismo delle singole scene e il singolare alternarsi dei chiaroscuri. Per comprendere, invece, il vocabolario del corpo dobbiamo guardare con attenzione  “San Pietro riceve le chiavi da Cristo” (1618), dove ogni suggestione viene trasformata ed assimilata dalla personalità di Gesù: è tutto in relazione a Lui, in un continuo rimando alla introspezione del viso, alla profondità degli sguardi, alla presenza e statura del personaggio (vedi foto allegata). Guercino ebbe poi anche un’importante parentesi bolognese, dove, di fatto, ereditò lo spazio che prima era stato di Guido Reni (1575-1642); tante le richieste, moltissime le esigenze e le aspettative. Non fu una sfida facile da raccogliere per un perfezionista come lui, sempre attento ai particolari: tuttavia l’artista riuscì a mantenere il suo equilibrio, pur dando a talune opere un nuovo carattere ‘drammatico’, più accentuato rispetto alla produzione precedente. Anche in questa nuova fase della sua vita, comunque, la pittura di Guercino non perse la sua armonia distintiva, come il motivo ricorrente del ‘gioco degli sguardi’ fra i personaggi che va a disegnare un insieme composto di emozioni fatte di gestualità e dinamismi. A tratti si rileva poi un certo sentimentalismo, leggero, bello, sereno che non scade mai in narrazioni ampollose o superficiali. E la preghiera naturalmente, tramite ordinario fra uomo e Dio, mezzo di elevazione spirituale nella vita di tutti i giorni, fatta di natura, cibi, ritratti, professioni. Monumentalità statuarie e temi anche di derivazione pagana e di costume completano la descrizione offerta al pubblico: per immergersi nel Bello e passare un pomeriggio all’insegna della meditazione, in un ideale viaggio dell’anima alla ricerca dello stupore è bene fare un salto alla mostra, e poi una volta usciti dal Museo, portarsi dentro quelle sensazioni, ovunque si vada…

 

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