IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE TRA L’ABORTO E L’EUTANASIA

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Da “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 maggio 2025 riprendiamo la riflessione di Mons. Vito Angiuli, Vescovo di Ugento-S. Maria di Leuca:

C’è un equivoco di fondo quando si trattano i discorsi etici riguardanti l’aborto e l’eutanasia. Si afferma, infatti, che si tratta di “allargare i diritti individuali”, di consentire “la libertà di scelta” e di agire in nome di una “vita degna”. In riferimento poi al confronto con la visione cristiana, si sostiene che non si possono imporre ragionamenti che nascono da alcuni presupposti di fede in una società e in uno Stato laico. In realtà, quando il cristiano tratta questi argomenti non fa riferimento solo alla fede, ma in primo luogo esercita un principio di ragione che è comune a tutti.

Per comprendere meglio il paradosso nel quale si cade ogni volta che si affrontano questi argomenti occorre richiamare, sia pure in modo sintetico, alcune coordinate storico-culturali ed esplicitare il confronto tra la cultura classica, rivisitata e ripresentata dal cristianesimo, e la cultura “laica” moderna e contemporanea.

Secondo la visione classica-cristiana vi è un piano ontologico costituito dalla “natura”, la physis per la filosofia greca e la “creazione” per la visione cristiana. La ragione (logos) cioè il nous/dianoia per i greci e l’intellectus/ratio per i cristiani si pone sul piano gnoseologico e riconosce il primato del dato ontologico. Per i cristiani, infine, la fede conferma il valore dell’essere e del conoscere e aggiunge una luce “superiore” che non entra in contraddizione con la ragione, ma le conferisce un’apertura più ampia.

La cultura “laica”, moderna e contemporanea, scardina questo impianto ontologico e gnoseologico, riduce la fede a un fatto privato e interiore senza alcun valore oggettivo, pone la ragione come supremo ed unico criterio di riferimento e, infine, assoggetta la ragione alla volontaà facendo della libertà il principio di autodeterminazione che ha potere assoluto sulla vita e sulla morte.

In sostanza, la cultura classica e cristiana segue un ordine: prima pone il primato della natura/creazione (piano ontologico), riconosce poi il valore della ragione (piano gnoseologico) e, infine, attribuisce il libero esercizio della libertà entro i limiti stabiliti dall’essere e dalla verità.

Per la cultura moderna e contemporanea, invece, prima viene la libertà che ha il potere di autodeterminarsi in modo assoluto e senza limiti se non il proprio stesso volere. Conseguentemente la verità diventa un fatto soggettivo e la natura risulta essere un prodotto culturale che cambia con il cambiare dei tempi, delle visioni scientifiche e delle sensibilità personali.

Nel primo caso, si sostiene che prima si nasce, poi si impara a conoscere e quindi si esercita la propria libertà secondo i dettami della ragione e della natura.

Nel secondo caso, la libertà, sciolta da ogni vincolo veritativo e ontologico, diventa essa stessa una forza creatrice di valori e di scelte senza nessuna regola esterna che possa limitare la sua espressione. In definitiva, non ci si accorge o si fa finta di non accorgersi che ragionando in questo modo, cioè eliminando il primato ontologico e gnoseologico rispetto alla libertà, si scardina l’ordine sociale.

Per non incorrere nella disintegrazione dell’ordine sociale si fa riferimento al diritto considerato però solo nel suo svolgersi procedurale, senza alcun riferimento al diritto naturale dal momento che si ritiene che non esista nessun diritto naturale, ma solo un diritto che è frutto dell’evoluzione e del cambiamento del modo di pensare. In altri termini, a determinare il diritto e le regole della vita personale e sociale è la cultura e non la natura.

Anche in questo caso non ci si accorge o si fa finta di non accorgersi che, sostenendo questa tesi, si cade in un paradosso insanabile. Invece di essere il diritto a regolare la libertà dei singoli, è la libertà del corpo sociale a dare valore al diritto.

Diritto è solo ciò che è deciso dalla mutevole libertà della maggioranza. Rimane però un dato fondamentale ed ineliminabile. Elevando la libertà a criterio supremo che decide della vita e della morte si cozza contro l’evidenza, perchè prima si nasce e poi si esercita la propria libertà. Questa non esisterebbe se non si nascesse.

La libertà è secondaria rispetto alla nascita, non solo in senso temporale, ma anche ontologico.

Certo rimane sempre un paradosso. Dopo essere nati, per esprimere il diritto all’esercizio della propria libertà si potrebbe anche esercitare il potere di togliersi la vita e di suicidarsi, ma non si potrà mai pretendere di avere un diritto alla nascita. Nessuno esiste, prima di nascere. Nè può decidere di nascere, prima di essere nato. Per esistere è necessario che qualche altro, diverso da noi, decida di farci nascere. Senza la volontà di altri, non possiamo darci la vita da noi stessi. Siamo esseri generati e, per questo, possiamo essere generativi. La possibilità della nostra libertà dipende ontologicamente dalla volontà altrui. Diventiamo liberi solo perchè altri ci consentono di nascere e di esistere. Questa dipendenza radicale segna fin dall’inizio il nostro essere e lo definisce nella sua datità ontologica. Come si può allora pensare di dare il primato alla propria libertà se questa è da sempre e originariamente condizionata dalla volontà e dalla libertà degli altri? Per questo ogni esercizio della libertà contro la propria vita o quella degli altri è un atto illogico, innaturale e irrazionale oltre che immorale.

Si comprende allora perchè il giuramento di Ippocrate, nel testo classico, recita: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, nè suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo».

La fede cristiana accoglie questi principi e, per questo, si oppone all’aborto e all’eutanasia. Aggiunge solo che questa visione è confermata dagli insegnamenti evangelici.

In altri termini, non fa altro se non avvalorare per fede quanto è scritto indelebilmente nella natura e, di conseguenza, confermato dalla ragione.