LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN TURCHIA (Il Corriere del Sud, n° 5/2008)

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turchi_erdogan.jpg Per affrontare il tema della condizione della donna in Turchia non si può prescindere da quella che è stata la data fondamentale per la Turchia moderna: il 1923, quando Mustafa Kemal detto Ataturk, e cioè “padre dei Turchi”, trasformò quanto restava del vecchio impero ottomano in una Repubblica rigorosamente laica, con forti connotazioni nazionaliste. Il modo di guardare alla donna, almeno da un punto di vista legale, cambiò molto, specie in relazione agli altri Paesi a maggioranza musulmana. Fu abolita la poligamia ed apertamente contrastato l’uso del velo – che qui prende il nome di “turban”-, vietato nelle università e negli edifici pubblici. Nel 1934 alle donne fu concessa la completa uguaglianza politica, con il diritto di votare e di essere elette. Insomma la svolta legislativa imposta da Ataturk si mostrò per quei tempi più all’avanguardia di quanto accadeva in certe nazioni occidentali.

Eppure, secondo un rapporto europeo intitolato “Sex and Power in Turkey”, a cura dell’European Stability Initiative (ESI), le riforme tese a laicizzare la società non hanno sconfitto del tutto il sistema patriarcale, e tanto il diritto civile quanto quello penale hanno risentito delle consuetudini.

Dopo quasi 80 anni di dominio dei partiti nazionalisti e laicisti, che si riconoscono direttamente in Ataturk, dal 2002 è al potere un partito islamista moderato, l’AKP (Partito dello Sviluppo e della Giustizia), già largamente presente e attivo nella società civile. In questi anni di governo non si è assistito alla deriva musulmana che i laicisti turchi paventavano. Anzi, proprio in riferimento alla condizione della donna, vi sono stati una serie di interventi legislativi ad essa favorevoli: il marito non è più automaticamente capofamiglia e non occorre più il suo consenso per andare a lavorare. Inoltre sono state abrogate le leggi secondo cui lo stupratore che sposa la propria vittima non è perseguibile; sono stati garantiti sussidi per l’istruzione e per l’imprenditoria femminile.

Sul problema del velo, invece, l’AKP di Racep Tayyp Erdogan sembra non voler indietreggiare, invocando la libertà di indossarlo per le donne che intendano farlo anche in pubblico e nei luoghi istituzionali. Clamorose sono state a più riprese le proteste delle studentesse islamiche che nelle università sono obbligate ad andare a viso scoperto, pena l’espulsione. Oggi si assiste infatti ad un violento braccio di ferro fra l’AKP, partito che esprime la maggioranza del parlamento, il Capo del Governo e il Presidente della Repubblica e le altre istituzioni statali (le forze armate, la magistratura, l’università), tradizionalmente depositarie dei principi di laicità dello Stato.

Anche se la maggioranza delle donne turche indossa il turban, in definitiva il problema maggiore per loro non è il velo, che in omaggio alla libertà religiosa andrebbe riconosciuto, ma il sistema consuetudinario e patriarcale che, ad onta della legislazione vigente, perdura in alcune zone del Paese.

In proposito così scrive la giornalista e parlamentare europea Lilli Gruber: “Soprattutto dal sud-est dell’Anatolia, una regione poverissima e ostaggio dell’Islam più conservatore, giungono notizie di fanciulle che si suicidano o addirittura vengono lapidate. I loro “crimini” vanno dal sesso consensuale all’indossare una minigonna, fino a uno sguardo troppo audace lanciato a un giovanotto. I suicidi sono indotti dalla famiglia, per aggirare le leggi contro i delitti d’onore: le colpevoli vengono chiuse nelle loro stanze con un flacone di veleno o una pistola, bersagliate di sms minacciosi dei parenti maschi. I loro cari le perseguitano perché pongano fine alla propria vita, unico modo per lavare il disonore. E le fanciulle, spesso poco più che adolescenti, cedono” (Lilli Gruber, Figlie dell’islam, Rizzoli, 2007, pagg. 295-296).

Così può succedere che la consuetudine in Turchia spinga i genitori a dare la morte alla propria figlia di 16 anni, ingannata, violentata dal datore di lavoro e per questo rimasta incinta. In assenza di matrimonio riparatore il clan familiare si riunisce e decide la pena capitale.

Una morte decisa con una sentenza emessa nel corso di un’assemblea dell’intera famiglia per lavare l’onore macchiato. E perché così prescrive, a prescindere dalla colpa, la legge islamica”. Tanto riporta “Il Messaggero” di sabato 8 novembre 2003 (pag.16). Il fatto accade nella cittadina di Antalya alla giovanissima Aysegul Cam, uccisa dal padre con una pizza al veleno e con la piena complicità della madre. Come tutte le ragazze di questo mondo, Aysegul pensava di confidare il proprio dramma alla madre per riceverne aiuto, mentre la sua situazione è precipitata sino al compimento di quello che “Il Messaggero” denuncia come un “delitto islamico”.

Non sento alcun rimorso per aver ucciso mia figlia. Non ho fatto nulla di male. Ho soltanto ripulito il mio onore” – così ha detto il padre ai gendarmi turchi che lo hanno inchiodato dopo lunghe indagini –. “Noi siamo impazziti quando ci ha confessato di essere incinta. Secondo la nostra tradizione in questi casi devono essere uccisi sia la ragazza sia l’uomo che l’ha sedotta. Ho potuto uccidere solo mia figlia. Ma anche Bakir dovrà morire. Tutta la famiglia era d’accordo…”.

A fronte di tale tradizione, la legge penale turca, ispirata ai principi di laicità dello Stato, non riconosce attenuanti ai delitti commessi per motivazioni “d’onore”. Anzi proprio di recente anche il governo del musulmano Erdogan ha convenuto di inasprire le pene per i delitti d’onore. Certo non tutta la magistratura applica con il dovuto rigore queste norme …

Quanto all’adulterio, che fino al 1996 era penalmente perseguibile, l’AKP era tornato alla carica per sanzionarlo, ma il parlamento nell’autunno del 2004 ha respinto tale eventualità, proprio alla vigilia delle trattative per l’ ingresso della Turchia in Europa. Lo ha fatto sotto la fortissima pressione dell’Unione Europea che, unitamente al concreto rispetto dei diritti umani, ne faceva una condizione di assoluta priorità.

Insomma l’impressione che si ha circa il rispetto della dignità femminile è che la Turchia, pur essendo sicuramente più avanti di altri paesi musulmani, si sforzi di raggiungere un difficile compromesso tra le esigenze di laicità – imposte dal suo passato kemalista e soprattutto dal possibile ingresso nell’U.E.-, e le attuali tentazioni islamiste, che affondano le radici non solo negli strati sociali più arretrati del Paese ma anche fra i giovani, molti dei quali sono simpatizzanti dell’AKP. Non a caso in questi ultimi anni è aumentato il numero delle donne e delle ragazze che indossano il turban.

Chi vincerà questa partita?

Non è facile dirlo. Di fatto il semplice ingresso in Europa non sembrerebbe un “toccasana”. E infatti la condizione delle donne turche in Europa, specie in Germania, dove vive la più numerosa comunità di immigrati turchi, è stata spesso al centro di violenti polemiche. I Turchi infatti non di rado vivono chiusi all’interno dei loro quartieri, ricostruendo condizioni sociali simili a quelle lasciate nella madrepatria, e anzi con un maggiore attacco alle tradizioni per rafforzare il proprio legame identitario. Sta di fatto che mentre in Turchia, sia pure lentamente, si affievolisce il fenomeno dei “delitti d’onore”, in Germania e in altri paesi europei sta diventando percentualmente significativo. A volte è sufficiente anche vestire o vivere con gusti occidentali per condannare a morte una ragazza: muoiono pugnalate, affogate, finite a colpi d’arma da fuoco, assassinate da “… padri omicidi, mariti o ex mariti omicidi, tutti uniti dal rigoroso legame con l’ortodossia integralista (Andrea Tarquini, Berlino, allarme “delitti d’onore”, La Repubblica, 17 febbraio 2005, pag. 23).

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