LA CONDIZIONE DELLE DONNE IN ARABIA SAUDITA (Il Corriere del Sud, n°3/15 aprile 2008)

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arabiasaudita.gif L’Arabia Saudita è la terra del sunnismo più rigoroso. Qui ha preso vita la corrente tradizionalista del wahabismo, che ormai trova diffusione ben oltre i confini della penisola arabica, raggiungendo, per esempio, il Caucaso e la Russia meridionale. Qui, in questi deserti, le famiglie dei Saud (capi militari e politici) e dei Whahhb (capi religiosi) si legarono indissolubilmente nel XVIII secolo, giurandosi fedeltà reciproca, con l’intento di realizzare una comune azione per il rinnovamento dei costumi, che giudicavano eccessivamente rilassati. Si ponevano così le fondamenta dell’attuale dinastia.

Oggi vi regna l’ottantaquattrenne re Abdullah, che nella sua vita pare abbia sposato una trentina di mogli, con una ventina di figli viventi. Intorno a lui uno stuolo di fratelli e nipoti, che occupano i posti nevralgici dello Stato.

Il wahabismo interpreta in modo ancora più rigido il già ristretto ambito di libertà della donna musulmana.

Spesso neanche il lustro e la ricchezza della famiglia d’origine sono sufficienti a garantirne una maggiore tutela e dignità. Principesse o semplici borghesi che siano, in Arabia Saudita le donne fin dall’infanzia vengono educate ad un “sacro rispetto” del maschio. Il figlio maschio è sempre una benedizione, così che se per sventura nasce una femmina, la madre può ricevere la commiserazione di parenti e vicini: “…Vedrai, sei ancora giovane, la prossima volta sarà maschio!”.

Accade in molti paesi musulmani, e accade anche in Arabia Saudita.

Nel racconto autobiografico della principessa saudita Sultana, protagonista del libro “Dietro il velo” (Jean P. Sasson, Sperling & Kupfer Editori S.p.A., 1992), le cose vengono messe in chiaro fin da subito: i fratellini maschi, anche se più piccoli, sono oggetto del massimo rispetto da parte delle sorelle, che non possono infastidirli o reagire ai piccoli soprusi, tipici dell’età infantile. L’autorità del padre, che si divide fra le diverse mogli e le relative famiglie (che non necessariamente vivono tutte insieme sotto lo stesso tetto), è ovviamente assoluta. In genere dai 14 ai 16 anni alle ragazze viene trovato marito, ma spesso si tratta soltanto di cambiare tutore. saudi1.jpg

Nel libro di Jean P. Sasson si narra, fra l’altro, dello sfarzoso matrimonio della sedicenne Sara, sorella di Sultana, combinato dal padre e dal “promesso sposo”, uomo di 62 anni, che aveva già due mogli. Sara, che non ha alcuna intenzione di veder naufragare i propri sogni di giovane donna fra le braccia di un anziano, viene costretta al matrimonio non solo moralmente, ma pure fisicamente, con opportune dosi di psicofarmaci. Questa storia non si situa in una cornice di degrado sociale e culturale, ma all’interno della vastissima famiglia reale saudita, fra sceicchi e principesse abituati a vivere nel lusso più sfrenato garantito dai petrodollari.

In questo libro l’Autrice, Jean P. Sasson, dichiara: “L’Islam permette all’uomo di divorziare senza sindacarne i motivi. Invece per una donna è molto difficile divorziare… Molti fattori definiscono il tipo di matrimonio di una ragazza araba: il suo nome, la ricchezza della sua famiglia, la mancanza di deformità e la bellezza. Incontrarsi prima del matrimonio è tabù, così un uomo deve dipendere dall’occhio della madre e delle sorelle che ricercheranno per lui la persona giusta. Persino dopo che è stata fissata la data del matrimonio è raro che una ragazza incontri il futuro marito prima della cerimonia, anche se a volte le famiglie permettono uno scambio di fotografie… Naturalmente nessuno scandalo deve macchiare la reputazione della bella, altrimenti la sua desiderabilità cesserà di esistere: una ragazza simile potrà solo essere accasata come terza o quarta moglie in uno sperduto villaggio…(pagg. 39-40)”. Fra i fidanzati non esiste dunque alcuna possibilità di conoscenza reciproca, con le inevitabili sorprese che il matrimonio poi riserva, specie per le donne. Come se non bastasse la polizia religiosa (i cosiddetti mutawwa) in Arabia Saudita vigila per mantenere la moralità nei luoghi pubblici. Non solo niente alcolici e niente abiti occidentali, ma soprattutto nessun contatto fra ragazzi e ragazze. Ma il divieto, come spesso accade, aguzza l’ingegno. Così le ragazze benestanti si fanno scorazzare per le strade più trafficate ed eleganti dai propri autisti (indiani, pakistani, filippini, ecc.): in ciascuna delle auto che avanzano a passo d’uomo brilla la luce di un bluetooth. Se tutto va per il meglio, riescono a collegarsi col cellulare del ragazzo della macchina accanto, lontani dagli occhi indiscreti dei mutawwa. E’ l’occasione di un incontro, con la possibilità di far nascere, eventualmente, una relazione semi-clandestina. Ma anche questi miseri sotterfugi per sottrarsi alla vigilanza della polizia religiosa non sono alla portata di tutte le giovani donne, perché soltanto le ricche saudite hanno a disposizione un immigrato pronto a farle da autista personale.

Alle saudite, infatti, è severamente proibito guidare l’auto. Ogni tanto qualche principessa reale o qualche facoltosa intellettuale trova il coraggio di ribellarsi, sfidando l’autorità dei mutawwa, e si mette al volante. Sono soprattutto coloro che per motivi vari hanno trascorso lunghi anni all’ estero, specie in Occidente, e trovano asfissianti le proibizioni e le censure locali. Si tratta comunque di episodi isolati, e il tutto finisce con severe ammonizioni e la promessa di un tutore maschio di vigilare affinché l’episodio non abbia a ripetersi … Questo aspetto della condizione femminile saudita viene ampiamente trattato dall’euro-deputato Lilli Gruber nel suo libro “Figlie dell’Islam” (Rizzoli, Milano, 2007, pagg.349). L’On.le Gruber – eletta al parlamento di Strasburgo nelle fila della sinistra italiana – intervista una sfilza di principesse e di donne d’affari saudite, nell’estenuante ricerca di un filone islamico-femminista che stenta a farsi strada, e che comunque, per la sua appartenenza alla cerchia del potere, gode di privilegi sociali che per altre donne sarebbero assolutamente impensabili.

L’impossibilità di guidare l’auto ovviamente condiziona le donne nel mondo del lavoro (almeno quelle che non dispongano dell’autista di famiglia!), impedendole di spostarsi liberamente. E’ un altro elemento che le spinge nella rigida chiusura fra le pareti domestiche. L’8 marzo 2008 ha fatto il giro del mondo un filmato diffuso su You Tube da Wajeha Al-Huwaider, 45enne intellettuale saudita – già arrestata in passato per la sua attività in favore del rispetto dei diritti umani – che nel giorno dedicato alla donna ha sfidato le autorità mettendosi a guidare e riprendendo se stessa al volante. Ha quindi messo il filmato su You Tube.

Il suo atto di protesta segue una petizione firmata da circa 3.000 donne che chiedono al re Abdullah il permesso di guidare l’automobile. Il divieto infatti non è basato su una legge, “… ma sull’interpretazione restrittiva del principio per cui le donne devono essere accompagnate in pubblico da un parente maschio (loro guardiano) (Sfida di una saudita. Al volante, sul web, in: Corriere della Sera, lunedì 10 marzo 2008, pag.18).

Il divieto di guidare e l’obbligo di essere sempre accompagnate in pubblico da un uomo della famiglia costituiscono forse gli aspetti più macroscopici di questa compressione misogena.

La stessa istruzione per le bambine saudite è una conquista relativamente recente, che risale agli anni ’60. Ma anche per loro, rigidamente separate sin da piccole dall’universo maschile, i problemi non mancano. Memorabile resta il gravissimo episodio dell’11 marzo 2002, riportato anche nel volume di Lilli Gruber. In quel giorno scoppiò un incendio in una scuola femminile di La Mecca: “… Quando alle otto del mattino fu dato l’allarme, negli edifici c’ erano 835 alunne e 52 professoresse. I pompieri e le squadre della protezione civile arrivarono rapidamente sul posto e cominciarono ad evacuarle. Poi, all’improvviso, comparvero i mutawwa e presero un’iniziativa che sollevò un’ondata di indignazione: impedirono ad alcune bambine senza velo di uscire da quell’inferno di fiamme. A nulla servirono le proteste delle squadre di soccorso e una quindicina di giovanissime allieve rimasero uccise. Il giorno dopo la stampa si fece portavoce delle denunce contro la polizia religiosa. Dopo alcuni mesi il ministro degli Interni, quel principe Nayef, secondo cui le accuse ai Mutawwa sono solo falsità, esortò i guardiani della virtù a mostrarsi meno severi …” (Figlie dell’Islam, cit., pagg.173-174).

E’ l’ennesima dimostrazione che potere politico e potere teocratico in Arabia Saudita sono intimamente legati, combinazione certamente tipica dell’Islam, ma qui ancora più eclatante in forza dell’antico patto fra i Saud e i Whahhb.

1 commento

  1. E’semplicemente demenziale, allucinante. I maschi dell’Arabia Saudita dovrebbero provare sulla propria pelle quello che fanno patire alle proprie donne.

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