LA QUESTIONE DEL VELO (Il Corriere del Sud, n°1, 30 gennaio 2008, pag.3)

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getdataphp.jpg Perchè molte donne musulmane si velano? L’obbligo di velarsi discende direttamente dal Corano, che impone alle donne di coprirsi il petto con un velo che scende dal capo. Possono invece mostrarsi liberamente, sempre nei limiti della decenza, solo ai maschi della famiglia – della famiglia in senso lato – (sura XXIV, versetto 31): “E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni di un velo e non mostrino le loro parti belle a parte che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi maschi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano la nudità delle donne”.

Del medesimo significato è la sura XXXIII, versetto 59, che recita: “O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre, così da non essere molestate…”.

Di conseguenza, alla sura XXX, versetto 33, viene ribadito: “Rimanetevene quiete nelle vostre case e non vi adornate vanamente”.

Dunque l’obbligo del velo, chiamato in arabo hijab, non solo è citato direttamente dal Corano, ma risponde ad un precetto imprescindibile. E’ per questo motivo che, fin da ragazzine, di solito con l’arrivo della pubertà, le musulmane osservanti sono obbligate ad indossare il velo in pubblico.

Lo hijab in senso stretto consiste nel coprire i capelli sino al petto con un foulard; ma può anche significare l’obbligo di indossare un vestito lungo e largo che non faccia intravedere i lineamenti del corpo femminile. La donna lo indossa davanti a tutti gli uomini ad eccezione di quelli della sua famiglia, famiglia che, come precedentemente chiarito, è quella allargata che comprende anche i suoceri o, per esempio, i figli delle altre spose.

Questi passi del Corano lasciano poco spazio ad un’interpretazione che garantisca alle donne la possibilità di contravvenire liberamente all’obbligo, anche se la situazione cambia notevolmente non solo da Paese a Paese, ma perfino all’interno del medesimo Stato. Così mentre in Turchia, in Indonesia o nelle Nazioni del Maghreb viene consentita una sostanziale libertà di scelta, in Paesi come l’Iran, lo Yemen o l’Arabia Saudita l’obbligo è tassativo, e vale anche per le straniere.

Ma, come si diceva, anche negli Stati più modernizzanti c’è differenza, per esempio, fra città e campagna, dove il peso delle tradizioni si fa sentire maggiormente.

Nel tempo si è avuta una grande differenziazione non solo nell’uso ma anche nella tipologia del velo, che prende nomi differenti a secondo del diverso contesto geografico e sociale in cui il precetto si è impiantato. Dello hijab, che in arabo significa “velo”, esistono diverse versioni (al amira, shayla, khimar): tutti coprono capelli e collo (il khimar anche le spalle).

Tipico dell’Iran sciita è lo chador, solitamente di colore nero, che vela completamente sino ai piedi; mentre il burqa, diffuso soprattutto in Afghanistan, in Pakistan e nell’India musulmana, è una specie di mantello che copre ogni parte del corpo femminile, con una retina a maglie fitte dinanzi agli occhi che consente – più o meno – di poter vedere.

Nelle metropoli e nelle città europee di immigrazione islamica il velo è diventato un segno distintivo ed identitario; risponde inoltre ai richiami imperiosi dei gruppi fondamentalisti. In tale prospettiva il velo è una vera e propria rivendicazione nei confronti delle pretese occidentalizzanti, non solo in Europa ma pure nei Paesi islamici che non lo impongono obbligatoriamente, come la Turchia e il Marocco.

Per ciò che riguarda le molte polemiche europee, seguite al varo di taluni provvedimenti legislativi di stampo laicista volti ad impedire l’uso pubblico del hijab fra le giovani immigrate musulmane, si rinvia all’articolo di Giuseppe Brienza sul Corriere del Sud n°20/2004 (Velo e infibulazioni. Problemi ed ostacoli dell’integrazione islamica, pag.24, 1 dicembre/15 dicembre 2004).

Ci limitiamo in questa sede a ricordare che, se genuina espressione di libertà religiosa e non imposizione esterna, l’uso del velo non può che essere salvaguardato.

Quanto alle origini del hijab, alcuni studiosi sostengono che esse andrebbero individuate in un’usanza tipica dell’aristocrazia bizantina, le cui donne talora si velavano per distinguer si dal volgo. Di più: l’islamista Carlo Saccone ricorda come fino agli anni ’50 molte donne occidentali avessero l’usanza di presentarsi in pubblico “velate”; e ricorda come tale usanza affondi le sue radici in un dato culturale oltre che religioso: “… Certo il velo di tradizione cristiana non è un “burqa”, ma obbedisce ad una stessa ragione “culturale”, comune a tutti i popoli del Mediterraneo sin dai tempi preislamici: quello di salvaguardare il decoro delle donne in luoghi pubblici. San Paolo nella prima lettera ai Corinti (11,3-16) prescrive alle donne di coprirsi il capo quand o pregan o o partecipano a funzioni religiose. Le donne cristiane non solo presero alla lettera questa prescrizione paolina , ma la estesero anche ad altri momenti della vita quotidiana fuori delle mura domestiche.” (Carlo Saccone, Velo islamico ma anche cristiano”, Messaggero di Sant’Antonio, novembre 2007, pag.13).

In realtà anche sforzandosi di cercare analogie, in uno spirito forzatamente “ecumenico”, nessun obbligo di questo tipo – a parte nei richiamati luoghi di culto -, pendeva sulle donne in ambito cristiano e occidentale.

Sta di fatto che Maometto prescrisse tale usanza a favore delle sue numerose mogli, che si trovavano sovente esposte agli sguar di, talora indiscreti, di collaboratori e seguaci, che egli era solito ricevere direttamente nella sua casa di Medina.

Così fin da subito il velo rappresentò anche uno strumento che consentiva di separare il mondo maschile da quello femminile, in particolare dall’harem.

Nelle case musulmane talora vi è un tendaggio che divide la zona delle donne da quella degli uomini: in questo modo la verginità viene protetta anche all’interno dell’abitazione, tenendo in stanze separate uomini e donne che non siano parenti di primo grado. Soprattutto in Arabia Saudita questa separazione è stata sempre osservata con rigidità. Nei locali pubblici dedicati allo svago il problema trova analoghe soluzioni, con locali destinati agli uomini, dove per esempio si fuma il narghilé, e quelli per sole donne, come i bagni pubblici, che sono anche luoghi di incontro e occasione per intessere i tipici rapporti sociali femminili.

In generale la giustificazione del velo e della separazione fra sessi – più o meno rigida, a secondo dei luoghi e delle circostanze -, oggi viene argomentata con una più efficace tutela della dignità della donna, così sollevata e protetta da sguardi che potrebbero scatenare molestie ed aggressioni.

Scrive Ayaan Hirsi Alì: Per quanto riguarda il sesso, nella cultura islamica gli uomini sono considerati animali spaventosi e irresponsabili che alla vista di una donna perdono ogni capacità di autocontrollo…Un uomo musulmano non ha motivo di imparare a controllarsi, non ne ha alcun bisogno. Non gli viene nemmeno insegnato, gli uomini musulmani non ricevono un’educazione sessuale. Se tutto procede bene è per pura fortuna, per puro caso…” (“Non sottomessa”, op. citata, pagg. 25 – 26).

Dal canto loro i governi islamici denunciano spesso la pornografia, per mettere in evidenza come in Occidente vengono trattate le donne. L’eccesso di promiscuità, la pornografia, la decadenza morale costituiscono in effetti elementi di scandalo, che allontanano molti uomini e soprattutto donne musulmane da un rapporto più sereno con l’Occidente e con i suoi valori di libertà e di emancipazione.

Allora l’auspicio di una maggiore attenzione occidentale per il comune senso della decenza e del pudore non può che accompagnarsi alla perplessità per quelle forme di abbigliamento che sanno più di sopraffazione della dignità della donna che di libera espressione della propria religiosità.


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