La Rivoluzione francese e la Chiesa: la storia di una divaricazione ideologica (Corriere del Giorno, 12 ottobre 2008, pag. 6)

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Per l’Europa stancamente alla ricerca di una sua identità (in verità sempre più difficile da individuare) la Rivoluzione francese costituisce un indubbio spartiacque. Comunque la si consideri, è un momento storico con cui il Vecchio continente giorno dopo giorno si ritrova a fare i conti, perché da lì nasce la modernità e quindi l’origine di molte delle sue attuali contraddizioni.

“La Rivoluzione francese e la Chiesa” è un importante volume (Città Nuova Editrice, Roma, 2004, pagg. 216, euro 14,50) che viene a fare il punto della situazione su un rapporto storico controverso, quello appunto fra Rivoluzione francese e Chiesa cattolica, che ha cambiato i destini di noi europei.

L’Autore, lo storico Luigi Mezzadri (che è docente presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma), ricorda come in ambito storiografico vi siano differenti scuole e indirizzi di pensiero.

Quindi la tesi universalmente accolta e che da oltre due secoli viene insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado va presa con beneficio d’inventario: è cioè una ricostruzione nel novero di altre ricostruzioni storiche, di almeno pari dignità.

Il primo a trattare con metodo sistematico la Rivoluzione francese fu Jules Michelet (1798-1874); ma lo storico francese fu anche il primo ad utilizzare in modo ideologico la materia. Scrive nel americastire.com suo libro il Prof. Mezzadri: “La rivoluzione fu una potente negazione del cristianesimo, che Michelet combatté per tutta la vita e una meta che lui considerò ideale. Come Michelet, anche Alphonse de Lamartine (1790-1896) e Louis Blanc (1811-1882) utilizzarono i loro lavori di storia della rivoluzione francese per fare opera di propaganda politica. Il primo, esponente della borghesia liberale, lodò l’epoca eroica della rivoluzione contrapponendola alla tranquillità piccolo borghese del suo tempo. Blanc invece era un socialista…” (pag. 13).

Dunque la storia della Rivoluzione quale primavera di libertà e di progresso – così come oggi è conosciuta – risente profondamente delle impostazioni ideologiche di chi la ha scritta. Di fatto la Rivoluzione non si limitò a sradicare ancestrali privilegi (ma è ormai assodato che le classi contadine, percentualmente, pagarono molto più di quelle nobiliari, tanto in termini di costi umani che economici); la Rivoluzione con la Costituzione civile del clero tentò di stravolgere l’essenza stessa della Chiesa cattolica: il 12 luglio 1990 l’Assemblea Nazionale ne approvò il testo definitivo che, fra le altre cose, rendeva i Vescovi elettivi e sottoposti all’autorità dello Stato piuttosto che a quella del Papa. Con l’eliminazione delle rendite ecclesiastiche si interdiva la Chiesa dall’azione sociale; mentre più tardi si giungerà ad incoraggiare il matrimonio dei sacerdoti…

Non finivano così solamente i “privilegi” della Chiesa: finiva la sua libertà e la concreta possibilità di dare assistenza (in termini di sanità, istruzione, provvidenze) al mondo rurale e artigiano di Francia: “Per quanto concerne i beni del clero possiamo concludere che erano pingui, in quanto il clero possedeva circa il 6 o 7% del terreno coltivabile del regno…Questa massa di beni serviva oltre che al mantenimento del clero e degli edifici di culto all’insegnamento (lo Stato non se ne occupava), alla cura dei malati negli ospedali, ai bisogni dei poveri.” (pag. 42). Non mancarono i sacerdoti e gli ecclesiastici che abbracciarono la Costituzione civile del clero, facendosene convinti paladini (la paura del nuovo stato di cose, più che la convinzione, li spingeva a ciò). Nasceva così la “sinistra cristiana”, alla cui origine vi è proprio la giustificazione della Rivoluzione: si diceva che la Costituzione civile del clero avrebbe riportato la Chiesa alla purezza delle origini, necessità poi a più riprese ripetuta proprio da quella sinistra cattolica che per tutto il XX secolo è diventata culturalmente (ma anche politicamente) egemone in vari paesi occidentali, compresa l’Italia degli anni ‘70.

Ma ancor più del la Costituzione civile del clero fu la questione del giuramento a sancire la definitiva rottura fra Rivoluzione e Chiesa cattolica. L’obbligo per tutti gli ecclesiastici di giurare fedeltà alle leggi e alla nuova costituzione fu sancito con voto dell’Assemblea Nazionale il 27 novembre 1790 (ma i vescovi che giurarono furono solo su 7 su 160).

Chi per motivi di coscienza rifiutò di giurare venne bollato come “refrattario”, e ciò costituì l’inizio del suo personale calvario.

Molti cattolici pagarono con l’esilio nella Guyane, ma pure con un immane bagno di sangue, la propria fedeltà a Roma e alla Chiesa universale. Le violenze si susseguirono a più ondate, e solo i preti “giurati” e/o sposati poterono evitare la deportazione. In tanti, schiacciati l’uno sull’ altro, morirono nelle stive fatiscenti dei velieri che li portavano lontano dalla Francia.

La persecuzione della Chiesa fu all’origine di quella insorgenza popolare che in Vandea ebbe il suo apice, ma che riguardò diversi distretti della Francia. L’insorgenza, pur soffocata nel sangue dalle armate repubblicane, si placò soltanto con la fine della persecuzione religiosa, sancita dalla firma del concordato napoleonico nel 1801. Insomma non fu tanto l’attaccamento alla monarchia, quanto alla religione cattolica, ciò che più determinò l’insorgenza.

Violenze e persecuzioni non risparmiarono neppure vescovi e suore: “Alla prigione della Force i massacri avvenner o di notte. Venne formato una specie di corridoio umano formato da aguzzini, che ogni detenuto doveva percorrere. Ma sullo sfondo si distingueva la massa dei caduti…” (pag. 113). Delle migliaia di vittime la Chiesa finora ha riconosciuto ufficialmente 374 martiri, “… che rinnovano le pagine epiche del cristianesimo primitivo.” (pag. 193).

Qualche perplessità suscita la tesi dell’Autore, secondo cui sussisterebbe una presunta discontinuità fra Terrore e prodromi illuministici della Rivoluzione: la predicazione anti-cristiana di un Voltaire o di un Rousseau non furono forse suscettibili di portare a quelle nefaste conseguenze? E’ quanto, di fatto, avvenne. Nella cronologia che chiude il volume, il prof. Mezzadri non a caso ricorda che il 13 febbraio 1790 fu proprio la componente volterriana dell’Assemblea nazionale ad imporre l’abolizione dei voti monastici, quale preludio alla successiva Costituzione civile del clero. Più che di un “corto circuito” fra anima riformista ed anima terroristica all’interno della Rivoluzione, è forse allora più normale considerare che si passò, gradualmente ma secondo un preciso filo ideologico, di eccesso in eccesso.

Pure sulle presunte radici “anche cristiane” della Rivoluzione francese – così viene scritto sulla retrocopertina del libro – è azzardabile qualche perplessità; a meno di non voler confondere la Chiesa di Francia, nella sua generalità ostile alla Rivoluzione, con i gruppi di preti “sindacalizzati” che si trovarono eletti agli Stati generali.

In definitiva cosa fu la Rivoluzione francese? Certamente non una rivoluzione di popolo, e nemmeno “borghese”, in quanto “… se ne impadronì un’elite trasversale, i ventimila della Comune di Parigi di cui parla Chaunu (storico contemporaneo, n.d.r.). La libertà divenne terrore, la democrazia si trasformò in dittatura e la repubblica ebbe la sua amara conclusione nell’impero. Come già aveva sostenuto il padre Liberatore non fu utile ai lavoratori, in quanto cancellò le corporazioni lasciandoli indifesi di fronte ad uno Stato che si annunciava ben più crudele e assoluto di quello abbattuto … “ (pag. 186).

Se questo fu il lascito sociale, in campo religioso aumentò la scristianizzazione del Paese, con una più bassa pratica dei sacramenti e con la diffusione esponenziale dei matrimoni civili: la Francia non aveva più titolo a considerarsi figlia primogenita della Chiesa.

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