L’ENCICLICA DI BENEDETTO XVI: “CARITAS IN VERITATE” (di Michele Tuzio)

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LO SVILUPPO UMANO: RESTAURARE UN MONDO IN FRANTUMI

 Nell’Enciclica Sociale di Benedetto XVI, “Caritas in Veritate», (pubblicata a più di 40 anni dalla “Populorum progressio” di Paolo VI, dedicata allo sviluppo), riacquist ano dignità e forza due parole-tabù (“verità” e “integrale”), profondamente  avversate dall’uomo moderno, che ne ha falsificato il senso, ritenendole fonte di intolleranza e violenza. Il Papa le riporta al loro originario significato positivo, come criterio di giudizio indispensabile sia del Magistero sociale della Chiesa, sia dello sviluppo umano, sia di ogni altra attività dell’uomo, comprese quelle “caritative”, economiche e finanziarie. Restaurare la verità tutta intera in un mondo drammaticamente frantumato (con gli strumenti conoscitivi di fede e ragione [n.5]), sembra essere l’intenzione di fondo di questo documento, una vera opera di “misericordia spirituale” verso  l’uomo di oggi: «Difendere la verità», esordisce infatti l’Enciclica, «proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono…forme esigenti e insostituibili di carità» [n.1].

 

Carità nella verità, Dottrina Sociale, Sviluppo

Tre sono i princìpi che Benedetto XVI ci invita a tenere presenti per la ricognizione e il “restauro” di tutte le dimensioni dello sviluppo umano: 

  1.  «La carità è la via maestra della Dottrina Sociale della Chiesa […], sintesi di tutta la legge», ma la verità è la sua luce. Senza la verità, la carità si svuota o cambia di senso, diventa sentimentalismo, emozione, fideismo, chiusura nelle opinioni personali [nn.2-3-4] e «l’agire sociale cade in balìa di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società» [n.5]. I criteri orientativi dell’azione sociale, intrinseci alla carità, sono la giustizia [n.6] e il bene comune [n.7]. L’impegno per il bene comune è proprio della politica, forma di carità «non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente» [n.7]
  2.   La Dottrina Sociale della Chiesa non vuole né suggerire soluzioni tecniche ai problemi dello sviluppo, né «intromettersi nella politica degli Stati» [n.9]. Nella «sua dimensione sapienziale »[n.31], essa vuole fornire al mondo ciò che ha in proprio: «una visione globale dell’uomo e dell’umanità»[n.18], nella consapevolezza che la frammentazione dei saperi è dannosa allo sviluppo dei popoli. Tale Dottrina è parte integrante dell’annuncio di fede e dell’educazione a essa [n.15]. La stessa “Populorum progressio” di Paolo VI, che è parte di quest’annuncio, va letta in rapporto con la Tradizione Apostolica [n.10]; in continuità con il Magistero dei Pontefici precedenti e del Concilio Vaticano II («non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare» [n.12]); e, infine, in intima connessione con tutto il Magistero dello stesso Paolo VI, in cui le tematiche dello sviluppo [n.13], dell’ideologia tecnocratica [n.14] , della sessualità e della vita [n.15] confluiscono tutte nell’unico tema dell’evangelizzazione. A fronte di questa coerenza dottrinale, la Chiesa fa notare, di contro, la radicale contraddizione di una società che, «mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace», contemporaneamente accetta e tollera «le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole o emarginata» [n.15].  
  3. Lo sviluppo è autentico quando ha – secondo l’insegnamento di Paolo VI – due caratteristiche: a)-è “integrale” (“per tutto l’uomo e per tutti gli uomini”), compresa la dimensione soprannaturale; b)-è considerato una “vocazione”, [n.16], cioè come un dono e un appello di Dio, che richiede una risposta generosa dell’uomo secondo tre atteggiamenti convergenti: la libertà responsabile [n.17], il rispetto della verità nella sua integrità [n.18], la «centralità della carità» [n.19]. Lo sviluppo non è figlio né del “caso”, né della “necessità” (termini che percorrono tutta l’Enciclica), cioè né del “capriccio” [n.68], né di meccanismi automatici, siano essi storici [n.17], o naturali [n.68] o evolutivi [n.48]; non può essere indotto dall’esterno da tecnicismi o accordi politico-istituzionali [nn.11-72] o economico-finanziari [n.71]; non può essere attuato semplicemente «quale frutto di un agire comune» [n.30], perché «ogni azione sociale implica una dottrina» che la orienti. «Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti» [n.71]; richiede «uomini di pensiero capaci di riflessione profonda» [n.19] e insieme dotati di quella «carità fraterna» e quel principio di gratuità  che non viene da noi, ma che ha un’origine trascendente. Lo sviluppo implica, perciò, la dimensione etica e la consapevolezza della natura e dei limiti umani, offuscata dalla ferita del peccato originale, che la Chiesa propone sempre come chiave di lettura anche dei fatti sociali [n.34]. L’uomo è creato “a immagine di Dio”…, «da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana come anche il trascendente valore delle norme morali naturali» [n.45]; ma col peccato egli si chiude nel suo egoismo e in una presunta autosufficienza, illudendosi di poter «eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione» [n.34]. In economia, questa presunzione ha portato ad abusi dello strumento economico, con la nascita di «sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali» [n.34]. Ma «la tragica chiusura in se medesimo dell’uomo» gli fa sperimentare anche «la solitudine», che è «una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare», di fronte alla quale bisogna riscoprire la dimensione essenziale della relazionalità (anche da un punto di vista metafisico [n.53-55]), di cui la Trinità è modello teologico [n.54]  

 

Lo sviluppo umano nell’epoca della globalizzazione

«Oggi» dice il Papa «il quadro dello sviluppo è policentrico» [n.22]. Innanzitutto non funzionano più alcune vecchie semplicistiche distinzioni ideologiche tra Paesi ricchi e Paesi poveri: nei Paesi ricchi, infatti, aumentano i poveri e nei Paesi poveri «alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico» [n.22]; corruzione, illegalità, distorsioni nei reciproci rapporti,  sono presenti in entrambe le aree. Ma con la globalizzazione molte altre cose sono cambiate:

  • · Dal punto di vista politico, oggi lo Stato patisce una limitazione della propria sovranità, per la crescente mobilità di capitali e mezzi [n.24]. Questa limitazione non vuol dire che si debba condannare la globalizzazione (che  «rappresenta di per sé una grande opportunità» [n.33]), o che bisogna opporvisi ciecamente, come se fosse prodotta «da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana» [n.42]. La globalizzazione in sé «non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno» [n.42]. Questa limitazione, d’altra parte, non vuol dire neppure che si debba «proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato» [n.41] ché, anzi, «il suo ruolo sembra destinato a crescere», sia per le società in crisi come la nostra, sia per le società bisognose non solo di aiuti economici, ma anche «di rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto».[n.41] Tuttavia, nella mutata situazione, si può pensare ad una diversa articolazione dei pubblici poteri e dell’autorità politica, con lo sviluppo di altre organizzazioni operanti nella società civile e «di altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa», sia a livello locale che nazionale che internazionale [nn.24-41].
  • ·  Dal punto di vista sociale, i vecchi sistemi di protezione e previdenza non funzionano più adeguatamente, a causa della delocalizzazione della produzione, della deregolamentazione del lavoro e della mobilità lavorativa. Questi fenomeni hanno aspetti positivi (maggiore produzione di ricchezza, scambio tra culture, maggiori investimenti e formazione [nn.25-40]). Ma la prolungata mancanza di lavoro o l’eccessiva dipendenza dall’assistenza pubblica o privata comporta il rischio dell’instabilità psicologica e del degrado umano, mentre la delocalizzazione potrebbe essere fondata sullo sfruttamento (di uomini o di condizioni vantaggiose),  anziché sulla volontà di contribuire a un vero sviluppo [nn.25-40]. L’obiettivo dell’accesso a un lavoro «decente» [n.63] resta comunque prioritario, perché la scienza economica stessa insegna che «una strutturale situazione di insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane» [n.32], che si influenzano a vicenda. C’è da rilevare, inoltre, la crescente difficoltà  dei sindacati «a svolgere il loro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori» [n.25]: è necessario che essi, chiusi nella tutela dei propri iscritti, volgano lo sguardo anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati». Resta ferma la distinzione, sempre valida, tra sindacato e politica [n.64].
  • · Dal punto di vista culturale, l’accresciuta possibilità di dialogo tra i popoli «deve avere come punto di partenza l’intima consapevolezza della specifica identità degli interlocutori» [n.26]. Esiste, a questo riguardo, un duplice pericolo: «l’eclettismo culturale» (cioè un accostamento delle culture senza vero dialogo e senza vera integrazione) o, al contrario, «l’appiattimento culturale» (cioè una indistinta omologazione dei comportamenti e degli stili di vita). In questi due atteggiamenti (che separano cultura e natura) le culture «non sanno trovare la loro misura in una natura che le trascende», producendo così rischi «di asservimento e di manipolazione» [n.26]

All’aspetto economico-finanziario  dello sviluppo il Pontefice riserva una riflessione  più articolata, dedicandogli tutto il terzo capitolo dell’Enciclica. In sintesi il Pontefice auspica, nella complessità della globalizzazione, il superamento di vecchie logiche divenute semplicistiche, come quella del «binomio mercato-Stato». In base ad essa, da una parte c’è il mercato (con la sua predilezione del profitto, dell’impresa privata, dello scambio contrattuale), con il compito  di produrre ricchezza; dall’altra c’è lo Stato (con la sua predilezione del “pubblico”e delle strutture assistenziali), che ha il compito, successivamente, di ridistribuire la ricchezza prodotta, preoccupandosi della giustizia e della solidarietà. Il mercato viene considerato come il luogo dell’economia, luogo «della sopraffazione del forte sul debole», antisociale [n.36]; lo Stato viene visto, invece, come il luogo della politica, della delega alla solidarietà. Ma la società non deve difendersi dal mercato (che non è cattivo per sua natura), né delegare solo allo Stato la solidarietà, perché economia e politica non vanno separate (entrambi hanno la finalità etica del bene comune). Occorre prevedere, invece, una economia del dono  della gratuità nella società civile (senza la quale «non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» [n.38]), attraverso organizzazioni mutualistiche e sociali. «Senza forme interne» dice il Papa «di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave» [n.35]. Così verrebbe superata anche un’idea di impresa che oscilla tra “privato” e “pubblico”, “capitalista” e “dirigente statale”, profit e non profit. Affiancata all’attività economica, quella finanziaria va espletata al servizio dell’economia reale e non a fini speculativi o di profitto a breve termine [n.40]. Il Papa fa un cenno sia alle esperienze positive di «microfinanza» e «microcredito» [nn.45-.65] e sia alla necessità della tutela dei più deboli dall’usura e dalla disperazione, in caso di forte crisi finanziaria [n.65].

I due criteri-guida che la Chiesa raccomanda, per una cooperazione fraterna anche tra credenti e non credenti, sono «il principio di sussidiarietà»[n.57] e «il principio di solidarietà» [n.58]: il primo, «espressione dell’inalienabile libertà umana», è «un aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi» e rappresenta «l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista»; il secondo, evitando il rischio di «particolarismo sociale», ispira il giusto atteggiamento da tenere negli aiuti economici allo sviluppo, che non devono «perseguire secondi fini» (di «dominio» o di «sfruttamento»), e devono coinvolgere sia i governi dei Paesi interessati sia la società civile, sia le Chiese locali. Questa collaborazione vale anche per gestire il fenomeno impressionante delle «migrazioni», [n.62], «fenomeno di natura epocale» che va affrontato con «adeguate normative internazionali» e «nella prospettiva di salvaguardare» sia i diritti dei migranti sia di quelli «delle società di approdo».

 

Lo sviluppo integrale: una questione antropologica

Povertà e sottosviluppo non possono esser ridotti soltanto a questioni di etica economica e pertanto non possono bastare riforme settoriali. «È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini… siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti» [n.51]. Molti altri problemi, infatti, convergono ad allargare la definizione e le caratteristiche dello sviluppo dell’uomo: 

  • Il rispetto della vita umana. Oggi assistiamo al paradosso che, mentre nelle regioni povere congiurano contro la vita gli «alti tassi di mortalità infantile» (mentre «perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi» – dalla contraccezione all’aborto alla sterilizzazione, diffusi attivamente anche da Organizzazione non governative -), nei Paesi più sviluppati operano contro la vita una legislazione e una mentalità antinataliste, «che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale» [n.28]. Si fa passare, poi,  l’idea scorretta che «la crescita demografica» sia la causa prima del  sottosviluppo anche economico [n.44]. L’esperienza insegna, invece, che grandi Nazioni sono uscite dalla miseria, grazie al numero e alla capacità degli abitanti, mentre Nazioni floride sono andate in declino a causa della denatalità, che «mette in crisi i sistemi di assistenza, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie  necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli”». Ovviamente la Chiesa è favorevole ad una «paternità responsabile», nell’ambito del rispetto dei valori della sessualità, che non può essere ridotta a «fatto edonistico e ludico», né a una preoccupazione «tecnica» di «contagi» e «”rischioprocreativo». [n.44]. 
  • Il diritto alla libertà religiosa. A parte i casi in cui «si uccide nel nome sacro di Dio» (magari a copertura di ben altre ragioni) [n.29], il fanatismo religioso (come il terrorismo fondamentalista) o «la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico» contrastano entrambi con la libertà religiosa e «con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane» [n.29]. Ma libertà religiosa non comporta indifferenza né «che tutte le religioni siano uguali» [n.55]. Alcuni percorsi religiosi possono favorire isolamento, dispersione e disimpegno, oppure la chiusura «in caste sociali statiche, in credenze magiche irrispettose della dignità della persona, o in atteggiamenti di soggezione a forze occulte». Anche per le religioni vale il criterio di discernimento: “Per tutto l’uomo e per tutti gli uomini”. «Il Cristianesimo, religione del “Dio dal volto umano”, porta in se stesso questo criterio». 
  • Il riconoscimento dei doveri. È fondamentale,  per lo sviluppo, il riconoscimento dei doveri, senza i quali i diritti si trasformano in arbitrio, perdono la loro «oggettività» e «indisponibilità» e «possono essere cambiati in ogni momento». Oggi si assiste a una «pesante contraddizione»: mentre «nelle società opulente» si rivendicano presunti diritti al «superfluo» o addirittura «alla trasgressione e al vizio», nelle regioni sottosviluppate o «nelle periferie di grandi metropoli» manca cibo, acqua potabile, istruzione di base e cure sanitarie elementari [n.43]  
  • L’uomo e la natura. Per “natura”  il Pontefice intende sia “l’ambiente naturale”, che la “natura umana”, entrambi creati da Dio (e non frutto del caso o di meccanismi evolutivi, che attenuerebbero nelle coscienze la responsabilità [n.48]).  C’è un’ecologia dell’ambiente naturale, «dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci» [n.48], che l’uomo deve custodire, coltivare, difendere e «utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni»: è «contrario al vero sviluppo» sia «considerare la natura più importante della stessa persona umana» (inducendo «atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo»), sia – all’opposto – «la sua completa tecnicizzazione». Analogamente,  c’è anche una «ecologia umana» [n.51], che obbliga «a difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione», ma «a proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso». È un problema di «complessiva tenuta morale della società»: «se non si rispetta il diritto alla vita, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca», si perde «il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale», perché «il libro della natura è uno e indivisibile». 

Qui finisce per palesarsi interamente la tendenza totalitaria della tecnica, il suo volto “ideologico” : da strumento «profondamente umano», che esprime «la signoria dello spirito sulla materia» e che permette «di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni di vita», si trasforma in un elemento contro lo sviluppo, facendo «coincidere il vero con il fattibile», con «l’efficienza e l’utilità»[n.70]. Lo spirito tecnocratico è entrato persino nella vita interiore dell’uomo, riducendo l’anima a meccanismi psicologici o neurologici, confondendo la sua salute con il «benessere emotivo» e spogliandola di quella «profondità che i Santi hanno saputo scandagliare» [n.76]. Ormai, dal problema della pace [n.72], a quello «dell’accresciuta pervasività dei mezzi di comunicazione sociale» [n.73], fino a al campo «primario e cruciale» della bioetica, l’uomo è impegnato in una «lotta culturale tra l’assolutismo della tecnica e la responsabilità morale» [n.74]. Ecco perché «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» [n.75]: fecondazione in vitro, ricerca sugli embrioni, clonazione e ibridazione umana, possibilità di una «sistematica pianificazione eugenetica delle nascite» o, all’opposto, dell’eutanasia, «sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, perché si è ormai arrivati alla radice della vita» [n.75]. E «mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano» [75]. Questa «incapacità di percepire»…«non si spiega con la semplice materia» [n.77], perché ogni atto di conoscenza «è sempre un piccolo prodigio», «qualcosa che ci sorprende». È la «dimensione spirituale» [n.77], attraverso la quale si intuisce che «senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia». L’apertura a Dio, in definitiva, è il segreto dello sviluppo integrale e «l’umanesimo senza Dio è un umanesimo disumano» [n.78].

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