“NOT IN MY NAME”: RIFLESSIONI SUL SUCCESSO DI UNA STRAORDINARIA CAMPAGNA MEDIATICA

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notinmyname_0A protestare contro il terrorismo a Roma sabato 21 novembre c’erano soltanto poche centinaia di manifestanti al corteo dei “musulmani moderati”, quelli, tanto per intenderci, che con enorme enfasi mediatica, vengono presentati con lo slogan “not in my name” (non nel mio nome…).

Non solo: a quella manifestazione parecchi partecipanti erano cittadini italiani, specialmente rappresentanti della sinistra: da quella politica a quella sindacale, per finire a quella religiosa… Dunque, contando bene, gli islamici presenti erano davvero pochini. Basti pensare alle 53 fra moschee e centri culturali musulmani presenti nella capitale; basti pensare alle centinaia e centinaia di fedeli sottomessi (Islam significa anche sottomissione) che affollano, specie il venerdì, le moschee nostrane. Dove erano allora le decine e decine di migliaia che prendono – o che prenderebbero – le distanze dal radicalismo? Davvero i cosiddetti fondamentalisti sono “estranei” al corpo sociale islamico? Se sì, perché così pochi a solidarizzare con le vittime del terrorismo? Se è vero che nella sola Roma i musulmani sarebbero almeno 80.000 (Simone Canettieri, in: Il Messaggero, domenica 22 novembre 2015, pag. 6), dove erano gli altri 79.500?

Insomma, non bisogna essere professori di statistica per capire che poche centinaia di “moderati“, rispetto ad 80.000, rappresentano sì e no lo 0.5% del totale.

Viene da pensare… viene da pensare anche quando ti rendi conto che nessuna vera protesta di massa contro Al Qaeda ed Isis sussiste nei Paesi musulmani: ci piacerebbe essere smentiti, ma, al di là di qualche dichiarazione di facciata, nessuna manifestazione solidale con le vittime di Parigi si è avuta nelle “moderate” Tunisia o Giordania, per non parlare – ovviamente – del Pakistan o dell’Arabia Saudita. Sappiamo, poi, che in Turchia hanno fischiato durante il minuto di raccoglimento. Altro che “not in my name“…

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