Da La Stampa dell’11 settembre l’analisi di Davide Tabarelli:
Nessuno se ne accorge, ma i prezzi del petrolio continuano a scendere: le “cattive” compagnie petrolifere possono vendere la benzina e il gasolio a listini che continuano a scendere. I più attenti trovano benzina a 1,7 euro per litro e gasolio sotto 1,6, ai minimi da quasi un anno.
Peccato che di petrolio non si voglia mai parlare nella politica europea, come confermato in queste ore dal rapporto Draghi, che ha al centro l’energia quale fattore di svantaggio competitivo. È singolare questo silenzio rispetto al fatto che il petrolio, con i suoi derivati, conta per più del 90% nella domanda di energia dei trasporti, settore al quale il rapporto dedica uno specifico capitolo, evitando accuratamente di parlare di cosa fa muovere le macchine, i camion, le navi, gli aerei.
Ma possiamo pensare a una difesa europea senza preoccuparci delle nostre raffinerie di petrolio?
Un carro armato fa 300 metri con un litro di benzina e ha bisogno di 5 camion per la logistica, ognuno dei quali fa 3 km con un litro. E la materia prima da dove la prenderemo? Forse che andremo con pannelli solari di cui si parla diffusamente nel rapporto Draghi?
Dopo lo sfogo, occorre riconoscere che il rapporto Draghi è fatto molto bene nell’analisi, perché finalmente mette in chiaro l’insostenibile differenza che esiste nei costi dell’energia per le imprese in Europa rispetto a quelli di Cina e Stati Uniti: da noi l’elettricità è a 200 euro per megawattora (MWh). Negli USA e in Cina sotto gli 80 euro. Per il gas le distanze sono maggiori, 60 euro/MWh da noi, 12 Negli USA.
Appena cerca le cause però arrivano le perversioni, originate dalla Commissione, che si individuano nei meccanismi di mercato, su cui l’Ue lavora da 30 anni, nella speculazione, che detto da un banchiere ex Bce sembra una confessione, in un generico mancato trasferimento ai consumatori finali dei benefici della decarbonizzazione.
Questi benefici sarebbero i bassi costi di produzione delle fonti rinnovabili che non arrivano ai consumatori. Innanzitutto, i costi delle rinnovabili non sono confrontabili con quelli delle fonti tradizionali, perché l’elettricità da centrali a gas, a carbone, nucleari è disponibile e programmabile sempre in grandissime quantità, tutte le 8.760 ore che sommate fanno un anno e non solo le 1.500 ore del solare o le 2.500 ore dell’eolico.
Pensare che si possa risolvere il problema degli alti prezzi solo con più rinnovabili è sbagliato, come lo è pensare che basti introdurre delle tariffe, mascherate dietro nomi esotici come Ppa, Power porurchasing agreement. Una tendenza che si addice alla grande finanza che ha invaso l’industria dell’energia elettrica, o meglio delle rinnovabili, da qualche decennio e che sembra un po’ ispirare l’impostazione dell’analisi.
Le cose sono molto più semplici, quasi banali.
I prezzi degli Stati Uniti dell’elettricitàsono scandalosamentebassi perché usano volumi enormi di gas a prezzi stracciati per una produzione interna che è esplosa grazie alla tecnologia del fracking, della fratturazione idraulica. Un merito che va totalmente ai “cattivi” petrolieri, quelli americani, il cui petrolio esce a fiotti dal Texas e consente a noi europei di parlare di alchimie dei mercati.
I prezzi dell’elettricità della Cina sono bassi perché usano il carbone interno che ha costi irrisori, mentre noi in Italia stiamo chiudendo le poche centrali a carbone che avevamo costruito con tanta fatica in passato. Una mezza follia per un’Italia che non cresce e che, testimoniano le tabelle di Draghi, ha i prezzi dell’elettricità più alti in Europa e, pertanto, al mondo.
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