SCHIAVE DEL CALIFFO

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Kayla Mueller, uccisa a febbraio

Dal sito www.informazionecorretta.com leggiamo e riportiamo l’articolo di Viviana Mazza, pubblicato sul “Corriere della Sera” di lunedì 17 agosto 2015 (pag. 12):

“Kayla Mueller, volontaria americana rapita due anni fa in Siria e morta lo scorso febbraio in circostanze misteriose, fu ripetutamente stuprata dal Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo hanno confermato tre adolescenti yazide, che hanno trascorso mesi, prigioniere e schiave come lei, nel villaggio siriano di al-Shadadiya. La schiavitù sessuale è una pratica istituzionalizzata ormai da almeno un anno nel Califfato: esiste non solo una burocrazia dello stupro (mercati dove vengono vendute, listini prezzi, contratti d’acquisto notarizzati da Corti islamiche), ma anche una teologia dello stupro, pubblicata lo scorso ottobre sul settimanale dell’Isis «Dabiq».
Mi hanno detto che l’ha sposata, ma tutti sappiamo bene che cosa significa», ha detto il padre di Kayla Mueller alla stampa venerdì scorso, il giorno in cui la figlia avrebbe compiuto 27 anni. Kayla, volontaria americana rapita due anni fa in Siria, è morta lo scorso febbraio in circostanze misteriose. Ma prima è stata ripetutamente stuprata dal Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, il leader dell’Isis, come rivelato dall’Independent e confermato da fonti dell’intelligence Usa.
A raccontare la lunga agonia della ragazza dell’Arizona sono state tre adolescenti yazide che hanno trascorso mesi prigioniere insieme a Kayla nel villaggio siriano di al-Shadadiya. Due di loro sono riuscite a fuggire lo scorso ottobre, l’altra è stata liberata in seguito a un raid americano che, a giugno, ha ucciso il padrone di casa, il «ministro del petrolio» dell’Isis Abu Sayyaf.
Kayla era finita nelle sue mani. E’ già noto come la ragazza, che lavorava nei campi profughi in Turchia, avesse varcato il confine il 4 agosto del 2013 con il fidanzato siriano, un tecnico che si recava ad Aleppo per riparare la connessione internet nella sede di Medici Senza  Frontiere. Furono rapiti mentre aspettavano l’autobus per tomare in Turchia, ma lui fu presto rilasciato, lei finì nella rete di Abu Sayyaf. Ora emerge che il Califfo in persona frequentava quella casa e, ogni volta che faceva visita al braccio destro e alla moglie Umm Sayyaf, si chiudeva in una stanza con Kayla.
«Ogni volta la sposava con la forza», ha raccontato una quattordicenne yazida. «Sposare», una parola che fa rabbrividire la madre: «Kayla non era la moglie di quell’uomo, lui la portava nella sua stanza, abusava di lei e la mia bambina usciva piangendo». Anche le tre giovani yazide, oltre a cucinare e fare le pulizie, venivano sistematicamente violentate: una dal Califfo, un’altra dallo stesso Abu Sayyaf e la terza da Abu Tamim, l’addetto a procacciare nuove «sabaya», nuove schiave. Umm Sayyaf, invece, organizzava la tratta delle schiave, vendute o «donate» ai combattenti.
Il bombardamento che a giugno ha ucciso Abu Sayyaf ha portato all’arresto della donna: è emerso che, nonostante gli abusi, Kayla cercava di aiutarla a realizzare il suo desiderio di restare incinta. «E’ possibile che Kayla sia stata costretta a sposarsi — dice al Corriere Matthew Barber, un esperto dell’Università di Chicago che ha intervistato decine di ragazze yazide — e forse godeva di uno status diverso dalle yazide. Ma non c’è molta differenza tra un matrimonio forzato e la schiavitù sessuale. I jihadisti avevano preso possesso di queste donne e le costringevano ad avere rapporti sessuali».
L’incubo di Kayla e delle tre adolescenti yazide continua a essere vissuto ogni giorno da migliaia di donne nel Califfato. La schiavitù sessuale è una pratica istituzionalizzata ormai da un anno: esiste non solo una burocrazia dello stupro (mercati dove vengono vendute, listini prezzi, contratti d’acquisto «notarizzati» da corti islamiche), ma anche una teologia dello stupro. Lo scorso ottobre il settimanale dell’Isis «Dabiq» ha spiegato come sia legittimo trattare le donne yazide come «khums», spoglie di guerra. Il mese scorso il «Dipartimento Fatwe» dell’Isis ha spiegato che «è consentito avere rapporti anche se la ragazza non ha raggiunto la pubertà». La teologia dello stupro afferma che gli abusi sessuali sulle yazide sono atti non solo consentiti ma virtuosi. Sono «ibadah», atti di devozione: cosl i miliziani si mantengono puri; infatti se non avessero queste concubine incorrerebbero nella tentazione di avere rapporti sessuali non leciti.
«Mi diceva che l’Islam permette di stuprare una non credente. Diceva che stuprarmi lo avvicinava a Dio», ha raccontato al New York Times una dodicenne, che veniva legata e imbavagliata prima di ogni violenza. La giornalista Rukmini Callimachi ha intervistato 21 bambine e ragazze che sono riuscite a scappare a Dohuk, in Iraq, dopo mesi di schiavitù. Tutte hanno confermato lo stesso rituale: lo stupratore pregava, poi saltava loro addosso, subito dopo si faceva la doccia e di nuovo rendeva onore a Dio.
Una 34enne ha cercato di difendere una schiava dodicenne: «Quell’uomo aveva distrutto il suo corpo e un giorno mi ha chiesto: “Perché fa cattivo odore?”. Gli ho spiegato che aveva un’infezione, che era una bambina. Ma lui ha risposto: “No, non è una bambina, è una schiava. Sa esattamente come fare sesso e questo piace a Dio”».
La «teologia dello stupro» viene duramente rinnegata da molti esperti islamici, che spiegano che la schiavitù non è un’istituzione religiosa ma una pratica diffusa ai tempi in cui furono scritti il Corano e la Bibbia. Ma l’Isis sostiene che le pratiche dei tempi del Profeta vanno recuperate. Una cosa è certa: in un contesto conservatore in cui i rapporti sono illeciti prima del matrimonio, la disponibilità di schiave sessuali è un’ottima esca per incoraggiare il reclutamento. Sui mercati delle schiave yazide, sono state raccolte decine di testimonianze da organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International. I leader spesso hanno la prima scelta: gli sceicchi, gli emiri, poi i combattenti. Quando si stancano le riportano al mercato o se le passano tra loro, come ha raccontato a Lorenzo Cremonesi del Corriere una venticinquenne di nome Hana, che aveva appena abortito.
La gravidanza sembra essere l’unico limite: alle schiave viene spesso chiesto quando hanno avuto il ciclo l’ultima volta perché se sono incinte sono off limits secondo la sharia. Non sempre viene richiesto loro di convertirsi all’Islam. In qualche raro caso viene concessa loro la libertà: una venticinquenne ha raccontato come il suo padrone libico, prima di una missione kamikaze, le abbia consegnato un «certificato di emancipazione» timbrato da un giudice, grazie al quale ha potuto superare i check point dell’Isis.
Rapimenti e violenze hanno colpito le donne di tutte le comunità in Siria e in Iraq (e un «manuale» autorizza lo stupro di cristiane ed ebree), ma le yazide sono state oggetto di una sistematica tratta delle schiave poiché, a differenza dei «popoli del Libro», vengono considerate politeiste e adoratrici del diavolo. Quando il 3 agosto 2014 i jihadisti invasero i villaggi yazidi sul monte Sinjar, nel nord dell’Iraq, uomini e donne furono divisi: i primi giustiziati, le seconde caricate su dozzine di furgoni vuoti e condotte a Mosul in spazi già predisposti con centinaia di materassi.
Lo studioso Matthew Barber sostiene che quell’attacco era finalizzato principalmente a catturare schiave sessuali. Cinquemila yazidi sono stati rapiti da allora, la maggior parte donne e ragazze. «Circa 3000 sono tuttora in schiavitù, mentre 2000 sono scappate o sono state salvate», ci dice Barber. Un avvocato di Sinjar di nome Khaleel alDakhi è alla testa di missioni di salvataggio che hanno restituito la libertà a 500 donne e bambini. Operazioni rischiose basate su una rete di spie e informatori all’interno del Califfato. In altri 780 casi le famiglie yazide hanno pagato riscatti dai 4000 ai 6000 dollari. La deputata yazida Vian Dakhil, che per prima lanciò l’allarme e chiese l’aiuto dell’Occidente, ora è delusa. «Il mondo ci ha abbandonato», lamenta. «Sono stata per tre volte a parlare alle Nazioni Unite. Qualcuno ha pianto, tutti hanno battuto le mani. Mi hanno detto “ci dispiace”, e poi “arrivederci”».”.

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