L’Italia le dette una Costituzione, tribalismi e lotte di clan la distrussero (Corriere del Giorno, 16 gennaio 2007, pag.6)

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images21.jpgIl recente raid aereo degli Stati Uniti sulle basi di Al Qaeda in Somalia ripropone alla ribalta il dramma di questo Paese, che da oltre 15 anni si dibatte fra guerra, fame e anarchia. Ma come al solito, per comprendere gli avvenimenti di oggi, bisogna partire da lontano. Nel 1950 l’Italia ricevette dalle Nazioni Unite l’incarico dell’amministrazione fiduciaria della Somalia (AFIS: Amministrazione fiduciaria d’Italia in Somalia).In tale prospettiva l’Italia collaborò per dare una costituzione al Paese africano. Terminato il mandato O.N.U. e ricostruite le istituzioni, nel 1960 nasceva la repubblica somala. Ma il tribalismo e le lotte di clan presero ben presto il sopravvento. Il generale Siad Barre, che si era formato nelle scuole militari italiane, applicò nel suo Paese il socialismo scientifico (cioè attagliato, secondo lui, alla Somalia). Promosse la lotta al tribalismo e le campagne di alfabetizzazione (nel 1973 diede mandato ad un italiano di istituire l’alfabeto somalo con caratteri latini e non arabi). Promulgò il nuovo diritto di famiglia, con l’abolizione della poligamia di ispirazione islamica; attribuì il diritto di voto alle donne e concesse loro la possibilità di ereditare. Successivamente, abbandonato dai sovietici e passato in campo occidentale, sostenne una disastrosa guerra con l’Etiopia del dittatore comunista Menghistu. Nel 1991 Siad Barre, accusato di corruzione, fu costretto a lasciare la Somalia con una pesante eredità: anarchia, lotte tribali, carestia. Una situazione di guerra civile che comportò un bilancio di circa 350.000 vittime, fra cui alcuni missionari italiani.Fu in quelle condizioni di disastro umanitario che l’ONU emise la risoluzione n°794 del 1992, che autorizzava l’avvio della missione ONUSOM 2 in Somalia. Nell’ambito di tale missione agli Statunitensi fu affidato il compito di guidare l’operazione Restore Hope; fu così che i marines a Mogadiscio presero porto e aeroporto senza sparare un colpo, in diretta TV. Fu uno sbarco straordinario: all’arrivo dei soldati americani c’erano già più di mille fra inviati speciali, cameraman e fotografi, dinanzi ad un 1 miliardo circa di spettatori televisivi che assistevano in diretta da tutto il mondo. Ma le cose peggiorarono presto. Fra i principali avversari della presenza multinazionale si segnalava il generale Mohamed Farah Aidid, uno dei capi più potent i ed ant i-occidentali tra i vari clan somali.

Sul fronte islamico cominciavano, sia pure timidamente, ad infiltrarsi elementi del fondamentalismo sunnita.

Si arrivò così alle battaglie del 5 giugno e del 2 luglio 1993 a Mogadiscio: nella prima (c.d. battaglia della radio) furono direttamente coinvolti i soldati pakistani; la seconda (c.d. battaglia del pastificio) vide quali sfortunati protagonisti proprio gli Italiani del generale Loi, comandante della nostra forza nazionale denominata “Ibis“. In quell’occasione l’attacco avvenne in prossimità del check point pasta (un punto strategico della capitale vicino ad un vecchio pastificio): un’unità di rastrellamento di circa 500 Italiani fu attaccata da bande somale, con un tragico bilancio di morti e feriti da entrambe le parti.

Il check point pasta, almeno per il momento, andò perduto. Intanto Sudan e Libia sostenevano il massiccio riarmo di Aidid.

Successivamente vi furono altri scontri fra Americani e Somali, sino al progressivo fallimento della missione ONU. Quando il presidente Bill Clinton manifestò la volontà di ritirare le forze statunitensi, tutti gli altri seguirono a ruota

Il segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali inutilmente espresse le sue preoccupazioni per la grave situazione di anarchia e di nuovi massacri che ne poteva derivare.

Nel 1995 si completava il ritiro italiano. Che è successo da quel 1995?

Dopo anni di anarchia e di ulteriori lotte tribali, nel 2004 in Kenya si formava, grazie ad un faticoso accordo fra i vari clan, un governo somalo di transizione. E fra gli esponenti del nuovo governo guidato dal premier Alì Mohamed Gedi c’era ancora lui, il generale Aidid

Tale esecutivo, nato all’estero per ragioni di sicurezza e di incolumità dei suoi componenti, è stato impossibilitato a rientrare in patria per la presenza a Mogadiscio delle Corti islamiche, un insieme di movimenti fondamentalisti sunniti finanziati da Sauditi e da Eritrei.

Negli ultimi anni le Corti islamiche si sono sviluppate a dismisura, riuscendo nel giugno del 2006 ad imporre a Mogadiscio e nelle zone da essi controllate la sharia (era considerato reato anche fumare una sigaretta o assistere ad una partita di calcio in TV ).

Poichè in Somalia il 76% della popolazione oggi vive con meno di due dollari al giorno, le Corti islamiche, sul modello di Hamas in Palestina e di Hezebollah in Libano, hanno cercato di garantire i servizi sociali essenziali, guadagnando in ciò il favore di larga parte della popolazione. Nel frattempo, dopo aver rifiutato nel settembre del 2006 l’intervento dell’IGAD, una forza di interposizione militare composta esclusivamente da Paesi africani, hanno anche lanciato la guerra santa (jihad) contro gli Etiopici, cristiani ed amici degli Stati Uniti.

Le Corti islamiche non hanno però valutato con sufficiente ponderazione i mezzi militari a loro disposizione e quelli degli avversari: sui grandi spazi l’esercito etiopico, attrezzato alla meno peggio ma con qualche cacciabombardiere in più, ha avuto facilmente la meglio.

Così il governo di transizione, formato per buona parte dai vecchi signori della guerra, con il sostegno degli Etiopici ha potuto riprendere il controllo di quasi tutto il territorio.

Gli esperti di geopolitica non hanno dubbi che dietro l’Etiopia e il governo di transizione nato a Nairobi vi sia la lunga mano degli U.S.A., e testimonianza di ciò sarebbe proprio il recente raid aereo; mentre le Corti islamiche, completamente infiltrate da Al Qaeda, sarebbero sostenute dai Paesi del fondamentalismo islamico.

Ad oltre 15 anni di distanza dai suoi primi interventi sul “caso Somalia”, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU oggi intende affidare all’Unione Africana il compito di ristabilire condizioni minime di sicurezza all’interno del Paese; mentre, a parte la Caritas italiana, neppure le O.N.G. riescono a mettere piede in Somalia per fronteggiare una situazione umanitaria che è ormai al collasso

Roberto Cavallo (“Il Corriere del Giorno”, martedì 16 gennaio 2007, pag.8)

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