TURCHIA: MODELLO DI DEMOCRAZIA?

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In molte analisi geopolitiche l’esempio della Turchia va emergendo come unico possibile modello “virtuoso” per quello che sarà il “dopo” delle rivoluzioni in corso in Nord Africa e in Medio Oriente.

A fronte degli scenari di stabilizzazione autoritaria tanto comuni nel mondo arabo, come anche della possibile instaurazione di un regime teocratico del tipo iraniano, la specificità del caso turco starebbe, secondo gli estimatori, nell’avere prodotto un partito di governo, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) che, pur provenendo da un ceppo islamista, ha saputo coniugare un’agenda islamica moderata con un atteggiamento favorevole all’Occidente, all’UE, e al libero mercato. [1]

Ahmet Davutoglu, oltre ad essere ideologo dell’AKP, dal 2009 è anche Ministro degli Esteri della Turchia. Davutoglu, già docente di relazioni internazionali presso l’Università di Marmara ad Istanbul, è autore del voluminoso volume “Profondità strategica”, pubblicato nel 2001.

Davutoglu vede il suo Paese

come l’erede della tradizione e dei valori dell’impero ottomano, in grado di diventare un attore autorevole, dall’Europa fino all’Asia centrale, grazie alla sua storia e a un’identità che fonde elementi islamici, asiatici ed europei (Bosnia, Macedonia, Albania).

Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia.

Vi è, infatti, in patria e all’estero, chi non considera l’AKP un fenomeno positivo per la Turchia, né tantomeno un modello da esportare. L’obiezione principale è quella secondo cui il partito non si sarebbe emancipato dalla propria origine islamista, ma avrebbe adottato una dialettica democratica e filo-occidentale solo in modo strumentale, in attesa di avere i mezzi per realizzare l’ islamizzazione del Paese. Come prova vengono riportati  alcuni eventi che tradirebbero le reali intenzioni  degli uomini dell’AKP:

  • sul piano amministrativo vigono, per esempio, regolamenti moralizzatori anti-alcool promossi da alcuni sindaci islamisti;
  • le dichiarazioni del premier Erdogan, in particolare quelle del 2004, in favore della criminalizzazione dell’adulterio;
  • il rallentamento delle riforme democratiche dopo il 2005;
  • l’atteggiamento apertamente filo-iraniano sulla questione del nucleare;
  • l’inerzia nel contrastare gli omicidi a sfondo religioso degli appartenenti alle minoranze cristiane (don Andrea Santoro, Mons. Luigi Padovese, ecc.);
  • il misconoscimento del genocidio armeno del 1915;
  • la scarsissima presenza femminile ai vertici del partito, del parlamento e dell’amministrazione pubblica. 

Insomma, se questo è il modello, forse non c’è da aspettarsi granché – almeno in termini di ciò che l’Occidente intende per “democrazia” – da quanto nascerà dalle ceneri delle dittature mediorientali.

 


[1] Luca Ozzano, L’AKP: L’islamocrazia come modello ?, in: Aspenia, le rivoluzioni a metà, n°52/2011, pag. 136

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