DAL CASO GANZER ALLA LIBIA. PERCHE’ I TROPPI POTERI AI PUBBLICI MINISTERI INDEBOLISCONO LA LOTTA AL CRIMINE

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Leggiamo e pubblichiamo un illuminante articolo del Sottosegretario agli Interni, On.le Alfredo Mantovano, comparso sul “Foglio” del 17 luglio 2010, pag. 4:

MANTOVANO“In pochi mesi differenti collegi giudicanti hanno pronunciato condanne pesanti ancorché non definitive nei confronti del capo dei servizi, del comandante dei Ros, di funzionari della Polizia fra i più impegnati nella lotta al crimine; è tuttora in corso il giudizio nei confronti dell’ex comandante dei Ros, mentre una procura siciliana ha disposto il rinvio a giudizio dei vertici operativi della prevenzione dell’immigrazione clandestina. Ancora, l’ex direttore dei servizi esterni ha evitato una sentenza sfavorevole solo grazie all’opposizione del segreto di stato. La singolarità delle condanne pronunciate e dei processi avviati è che: a) sono tutte connesse al compimento di atti propri della funzione svolta, il cui adempimento è però letto dalla magistratura in chiave delittuosa (non si ipotizzano reati per fatti estemporanei o estranei all’ufficio di ciascuno); b) tanti altri pm giudici manifestano nei fatti fiducia verso i soggetti coinvolti, continuando a delegare loro indagini; c) le istituzioni che si avvalgono del loro lavoro non hanno alcun dubbio sulla loro permanenza nell’ incarico, se ancora in servizio.

E’ un capitolo complicato nel rapporto fra la magistratura e le altre istituzioni, che non tollera di essere incasellato nella quotidiana polemica sull’uso politico della giustizia. E’ però un capitolo che va scandagliato con attenzione: sottovalutarlo condanna alla paralisi non solo il singolo funzionario, bensì quel settore di attività di governo nel quale l’azione di quel funzionario si inserisce. Vi è un dato strutturale: nel codice di procedura penale vigente fino al 1989 le indagini venivano svolte, con una discreta autonomia, dalla polizia giudiziaria; il pm o il giudice istruttore esercitavano un vaglio di giuridicità delle stesse, e quindi ne prospettavano l’ esito al giudicante. Col codice introdotto nel 1989 la polizia giudiziaria ha perso autonomia e le indagini sono dirette fin dall’inizio dal pm e ciò ha comportato una serie di effetti negativi sulla qualità e sulla celerità delle indagini medesime. In virtù di ciò , il pm è diventato il dominus della repressione criminale, colui che decide su che cosa indagare, chi indagare, e come farlo; è diventato, cioè, il soggetto che concorre a stabilire, spesso in modo determinante, la politica di risposta al crimine. Il punto è che questo modo di interpretare il ruolo del pm ha vanificato l’obbligatorietà dell’azione penale, sancendo di fatto la atipica discrezionalità dell’ufficio di procura, o del singolo pm. Questo contribuisce a spiegare perché dalla scrivania del medesimo magistrato parte con sollecitudine l’iniziativa penale per l’ipotesi di reato importante, che dà soddisfazione e notorietà, e che magari colpisce il presunto potente, e invece resta fermo il fascicolo contenente una denuncia per truffa, o una informativa per furto. Questo fa comprendere perché, mentre si impiegano energie e risorse per seguire procedimenti per i quali l’illecito di partenza è meno di una ipotesi, al contrario si lasciano pendenti per anni dettagliate informative per rapine, estorsioni, talvolta pure omicidi. Al procedimento per violenza privata contro funzionari che hanno applicato il trattato fra Italia e Libia in acque internazionali corrisponde un numero cospicuo di criminali in libertà per assenza di iniziativa penale. Lo scenario più recente aggiunge qualcosa. Non vi è più , soltanto , la pretesa di co-protagonismo nel governo della lotta al crimine, che in qualche modo ha costituito l’effetto collaterale della nuova procedura penale. Vi è la pretesa di governare a mezzo di provvedimenti giudiziari in settori che appartengono alla esclusiva responsabilità di istituzioni che non sono la magistratura. Il passaggio è delicato e non tollera equivoci: se un funzionario dello stato è infedele e commette un delitto merita la punizione, come qualsiasi altro reo; è ovvio ribadire che la mera appartenenza a un corpo istituzionale non garantisce impunità. Ma troppe iniziative giudiziarie  sono intervenute sulla base di una differente lettura e cioè di una lettura in chiave criminale di scelte che, condivisibili o meno, richiamano la discrezionalità di chi le compie. Così avviene per sanzionare l’aver adoperato strumenti che la legge prevede dall’agente sotto copertura all’acquisto simulato al fine di stroncare il traffico di stupefacenti; o per sindacare operazioni di intelligence che richiamano la collaborazione fra Stati; o per ricostruire linee di comando nella gestione dell’ordine pubblico; o per imporre, sempre per via giudiziaria e prescindendo dagli accordi internazionali, quale è il compito delle nostre unità navali con i clandestini. Questa pretesa di governo dall’interno degli uffici giudiziari è stata teorizzata in pubblicazioni e convegni; è stata organizzata e coordinata, in incontri e riunioni; viene difesa e propagandata da media militanti, o comunque grati del puntuale recapito nelle loro redazioni dei cd con intercettazioni e/o verbali di ogni tipo. Non è questione che interessa uno schieramento politico. Interessa la funzionalità delle istituzioni. E’ questione che va approfondita e discussa, col contributo di quella parte della sinistra oggi non particolarmente presente nel dibattito, ma che pure esiste a cui non va di avallare questa deriva, pur di lucrare vantaggi politici. E’ questione che, dopo averne inquadrato i contorni, merita un seguito operativo, del quale la maggioranza, proprio perché tale, e il governo hanno l’onere dell’iniziativa.”

On.le Alfredo Mantovano, Sottosegretario di Stato agli Interni

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