LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN PAKISTAN

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Il Pakistan è una Repubblica islamica (dal 1971) che si estende su un territorio vasto quasi 3 volte l’Italia. Con i suo i 160 milioni di abitanti ed un elevato tasso di natalità, raccoglie genti di etnia e di lingua diversa. Il dialetto più parlato, l’urdu, coinvolge poco più del 10% della popolazione, ma di fatto è la lingua ufficiale, mentre l’inglese è la lingua delle istituzioni e delle persone istruite. Lo stesso nome “Pakistan” è sintomatico delle diversità etniche che lo compongono, essendo parola composta che deriva da PAKI e STAN. STAN significa “terra di”, “paese dei”; mentre PAKI è l’acronimo formato dalle iniziali delle quattro province più importanti: Punjab, Afghania, Kashmir, Indo-Sindh. Pak significa anche puro, e quindi il nome del paese assume il significato di “Terra dei puri”.

Nella Repubblica islamica del Pakistan i non musulmani (cristiani, indù, sikh, parsi, seguaci di Zarathustra e buddisti) costituiscono una piccola minoranza: il 3,5% circa. Per tutte le minoranze religiose la situazione è difficile. In particolare la posizione dei cristiani dinanzi ai giudici è molto debole, appartenendo essi soprattutto alla casta più povera dei contadini, quella degli “intoccabili”. Ciò è tanto più vero per le donne e per le ragazze cristiane. Molte di loro, per esempio, studiano per diventare infermiere, la qual cosa costituisce un’occasione dignitosa per uscire dalla povertà. Ma secondo la consuetudine locale una donna non può toccare un uomo, a maggior ragione se cristiana. Per i musulmani radicali queste infermiere sono quindi considerate e trattate alla stregua di prostitute. Perciò non di rado subiscono molestie sessuali o vengono addirittura stuprate. Davanti ai giudici hanno ben poche possibilità di far valere le proprie ragioni. Spesso accade che dopo uno stupro o un matrimonio forzato con un musulmano vengano abbandonate al loro destino persino dalla famiglia di origine, troppo debole ed isolata per reclamare giustizia.

Razia Joseph è una cristiana che vive nel nord del Pakistan. Da anni combatte le discriminazioni nei confronti delle donne e delle minoranze. Aiuta e protegge le giovani in difficoltà, specie quelle considerate “reiette” o che hanno osato ribellarsi. Per tale finalità ha istituito un rifugio per ragazze, la “Women Shelter Organization”, per dar loro una speranza di vita. In un’intervista rilasciata al “Messaggero di Sant’Antonio”, con un velo di amara ironia, ha dichiarato: “Ho tante pecche agli occhi di un fondamentalista: sono una donna, single, cristiana, lavoro per i diritti umani e per il dialogo tra le religioni … In Pakistan la donna povera non ha diritti, non va a scuola, non può difendersi né prendere decisioni. Lavora come schiava, non riesce a dare il minimo necessario ai propri bambini. Da noi un figlio fuori dal matrimonio si paga con la vita e persino chi subisce stupro è una vergogna per la famiglia. Una vergogna da far pagare alla vittima” (Razia Joseph, una donna contro il fondamentalismo, di Giulia Cananzi, febbraio 2006, pag. 68).

Ovviamente la storia delle discriminazioni non riguarda soltanto le donne cristiane …

La musulmana Mukhtar Mai è diventata famosa in tutto il mondo per non essersi arresa dinanzi alle sopraffazioni di un potente clan tribale. Nata in Pakistan nel 1972, vive in un piccolo villaggio del Punjab, al confine con l’India, dove porta avanti la sua battaglia in difesa delle donne vittime di abusi. Mukhatar Mai è stata suo malgrado protagonista di una vicenda allucinante ma purtroppo diffusa, specie nelle zone agricole del paese, dove peraltro vive la maggior parte della popolazione. Il 22 giugno 2002 la sua famiglia fu di fatto costretta a cederla ad un potente clan rivale, allo scopo di sanare una presunta offesa. Dopo la decisione pubblica di condanna presa dalla Jiirga, il Consiglio degli Anziani, in quattro la violentarono per un’intera notte. Quando la notizia si diffuse, la polizia fu costretta a svolgere indagini; pur se minacciata, Mukhatar Mai raccontò la verità denunc iando i suoi aguzzini e i componenti del Consiglio. Fortunatamente la storia venne a conoscenza di alcune ONG e di giornalisti occidentali, che alimentarono l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda.

Condannati in primo grado, gli stupratori e i loro fiancheggiatori nel 2005 furono assolti in appello dalla Corte federale. Ma il processo è stato ripreso.

L’esperienza di Mukhatar Mai è diventato un libro di successo internazionale, pubblicato in Italia da Cairo Editore (Disonorata dalla legge degli uomini, Milano, 2006). Scrive Mukhatar Mai : “Per gli uomini come loro una donna è soltanto un oggetto, uno strumento per affermare possesso, onore, o vendetta. La sposano o la stuprano, secondo la loro concezione dell’orgoglio tribale. E sanno bene che una donna umiliata può ricorrere solo al suicidio per riabilitarsi. Per uccidere non hanno neppure bisogno di usare le armi, lo stupro è sufficiente. E’ l’arma più efficace. Serve a umiliare definitivamente il clan nemico.” (pag. 22).

Con i fondi ricevuti dalle organizzazioni internazionali e dal governo pakistano quale risarcimento per la violenza subita, Mukhatar ha fatto costruire una scuola, la prima in Pakistan per l’ educazione delle bambine. Non a caso ancora oggi circa il 70% delle donne è analfabeta, a fronte del 40% degli uomini. La stessa Mukhatar ha imparato a leggere e scrivere a 32 anni, solo dopo la costruzione della sua scuola.

Soprattutto nelle regioni tribali del Pakistan – quelle nord – occidentali vicine al confine con l’Afghanistan, dove si trovano i santuari di Al Qaeda e dei Talebani -, è molto diffusa la secolare tradizione di cedere bambine-spose al clan rivale, come risarcimento per sanare faide, tensioni e lutti.

In queste province, che godono di una semi-indipendenza, il Consiglio degli Anziani o Jiirga sostituisce anche ufficialmente le istituzioni dello Stato e decide esclusivamente sulla base del diritto islamico e delle tradizioni.

Così, da un giorno all’altro, alle ragazzine vien detto che se ne devono andare da casa, per sposare, se mai in terze o quarte nozze, un uomo solitamente molto più vecchio di loro. In Pakistan infatti vige, come in quasi tutti gli altri paesi musulmani, la pratica legalizzata della poligamia.

Talora la giovane viene semplicemente sacrificata per uno stupro di gruppo, organizzato dalla tribù rivale, il cui desiderio di vendetta soltanto così può essere placato. Come appunto nel caso di Mukhatar Mai. Anche i ragazzini non sono al riparo da violenze. Ultimamente è diventata allarmante la situazione all’interno delle madrasse, le scuole coraniche che preparano le future elites del paese e, spesso, dell’integralismo islamico.

Il sistema giudiziario pakistano, pur essendo modellato sul modello inglese, offre rare garanzie a chi subisce violenze e sopraffazioni.

Come sancito dalla Costituzione del 1985, il potere giudiziario è esercitato da un sistema di tribunali nazionali, al cui vertice si colloca la Corte suprema pakistana, che ha sede nella capitale, Islamabad. Per le questioni riguardanti il diritto di famiglia o di successione, però, le controversie vengono risolte in apposite sezioni all’interno dei tribunali, che giudicano in base al diritto islamico. La Corte federale della Sharia, istituita nel 1980, ha il compito di valutare la compatibilità tra le leggi dello Stato e il diritto sunnita. Poi ci sono le jiirga, che, anche se non riconosciute in tutto il territorio nazionale, di fatto esercitano il potere decisionale nelle controversie riguardanti la terra o l’acqua, ma anche le accuse di disonore, gli omicidi e le faide tribali. Nelle province del Nord-Ovest, come già accennato, costituiscono le uniche istituzioni giudiziarie.

Gli uomini accusati di stupro vengono esaminati in base alla legge islamica, e quindi nelle apposite sezioni dei tribunali, o davanti alle Jiirga.

Per tale sistema processuale la donna che denuncia uno stupro deve essere sostenuta dalla parola di quattro testimoni oculari, che siano attendibili ma soprattutto buoni musulmani. Altrimenti la sua denuncia non solo non ha alcun valore, ma rischia di ritorcersi contro, e di venire lei condannata per adulterio o prostituzione. Per i reati di zina (adulterio o fornicazione), veri o presunti che siano, si rischia la lapidazione o le frustate (Disonorata dalla legge degli uomini, pag. 184). La lapidazione è vietata dalla legge; ma la donna si trova sempre intrappolata fra due sistemi giuridici differenti, quello ufficiale e quello religioso, senza dimenticare quello tribale; questi ultimi evidentemente consentono tali tipi di pena.

La deposizione della donna in tribunale ha comunque meno peso rispetto a quella di un uomo. Così di fatto diventa difficilissimo condannare eventuali colpevoli di rapimenti e di stupri.

Per l’attivista Samir Minallah, fondatrice dell’organizzazione che si occupa di salvare le bambine scambiate fra clan rivali, il Pakistan, dopo le ultime elezioni legislative dello scorso febbraio 2008, sta accentuando ancora di più la sua deriva islamista, soprattutto nelle regioni tribali: “… Il patto tra il partito Popolare guidato dal vedovo di Benazir Bhutto e la lega islamica di Nawaz Sharif non tiene. E nessuno ha il coraggio di sfidare apertamente i leader tribali” (Militanti dei diritti civili in campo per salvare le 15 “spose bambine”, di Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera, 6 giugno 2008, pag.19).

Anche per le minoranze cristiane (2,5% della popolazione) i tempi si fanno, se possibile, ancora più difficili: la legge sulla blasfemia, che punisce con pene severe chiunque si pronunci contro Maometto o il Corano, è diventato il pretesto per perseguitare la comunità cristiana. Ecco le considerazioni di Shahbaz Bhatti, ex consigliere ed amico di Benazir Bhutto: “… La situazione non è per nulla positiva, anzi sta peggiorando: i cristiani subiscono discriminazioni dal punto di vista legislativo, le chiese vengono bruciate, le nostre donne violentate e convertite a forza all’Islam” (Cristiani sempre più perseguitati in Pakistan, di Lorenzo Fazzini, Avvenire, 7 giugno 2008, pagg.1-25).

E’ così che gli effetti dell’assassinio di Benazir Bhutto cominciano a farsi sentire. La morte di questa donna coraggiosa, che pur nelle sue contraddizioni rappresentava comunque una figura di moderazione per l’intero sistema politico, ha segnato anche il punto di arresto di timide riforme democratiche.

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