EGITTO: DALLA PRIMAVERA ARABA ALL’AUTORITARISMO ISLAMICO

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Riportiamo dal FOGLIO dell’8 marzo 2013, a pag. 3, l’articolo redazionale dal titolo “L’Egitto sprofonda nell’autoritarismo islamico e sospende il voto”:

“Il 7 marzo è stata sospesa dall’Autorità giudiziaria egiziana la convocazione delle elezioni politiche del 27 aprile. Il fatto che la decisione sia stata presa dal tribunale amministrativo del Cairo (simile al Tar nell’ordinamento italiano), cioè da un organo giurisdizionale marginale, è indicativo del livello di caos gestionale e di leadership di cui sta dando prova il presidente Mohammed Morsi e il governo della Fratellanza musulmana. L’intreccio di avvenimenti sul piano del diritto che hanno portato a questo risultato è segnato da vari passaggi, connessi alla mancata riscrittura di alcuni articoli della legge elettorale, come richiesto dalla Corte costituzionale. Ma dal punto di vista politico lo scenario è lineare: Morsi e la Fratellanza rifiutano ogni livello di mediazione politica con l’opposizione, fronteggiano la piazza come faceva il regime di Mubarak, introducono nuove leggi liberticide (come l’assunzione dei pieni poteri da parte di Morsi nel novembre scorso) e inciampano infine in incidenti di percorso paradossali come questo rinvio sine die delle elezioni a opera di un magistrato amministrativo. Questa sentenza segna un punto netto a favore dell’opposizione, unita nel Fronte di salvezza nazionale di Mohammed ElBaradei, Amr Moussa e Hamdeen Sabahi, che aveva già annunciato il boicottaggio delle elezioni per la mancanza di garanzie minime su uno svolgimento democratico. La crescente perdita di credibilità di Morsi e del governo si riscontra anche nella decisione della Conferenza delle chiese cristiane d’Egitto del 26 febbraio scorso: ha rifiutato un incontro da lui richiesto. Questa nuova struttura si è formata al Cairo l’8 febbraio scorso, riunisce tutte le chiese cristiane (copta, cattolica, ortodossa, le chiese evangeliche e vari altri riti) per perseguire due scopi: impedire che la nuova Costituzione nel nome della sharia riduca, come fa quella recentemente approvato, non soltanto la libertà di culto, ma i diritti civili dei cristiani, e imporre al governo la difesa delle chiese cristiane e dei cristiani, oggetto di violenza e di persecuzioni non solo da parte dei salafiti, ma anche delle autorità civili. Gli esponenti di tutte le chiese cristiane hanno rifiutato l’invito di Morsi con una motivazione inequivocabile resa pubblica dall’anglicano Andrea Zaki: “Le chiese hanno avuto precedenti ‘dialoghi’ con la presidenza ma hanno dovuto registrare che la presidenza non ha minimamente tenuto conto delle loro richieste; riteniamo quindi oggi che ulteriori incontri siano inutili e che non portino nulla di nuovo”. Hanno fatto la stessa fine gli appelli al dialogo che Morsi ha rivolto più volte a un’opposizione che verifica non solo che i morti nelle piazze egiziane sono nel 2013 già decine e decine, ma anche che la concezione del “dialogo” da parte di Morsi è di fatto una richiesta di resa incondizionata alla volontà e alle scelte dell’esecutivo. Il risvolto economico è pesante: l’indispensabile finanziamento all’Egitto di 4,8 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario è formalmente vincolato a un’intesa politica con l’opposizione – impraticabile – che faciliti le riforme economiche. La sponda più forte su cui può contare Morsi nella sua gestione autoritaria dell’Egitto è rappresentata oggi, paradossalmente, dall’Amministrazione Obama. L’appoggio incondizionato degli Stati Uniti – temperato soltanto da appelli al dialogo, regolarmente disattesi – è tale che tutti gli esponenti dell’opposizione si sono rifiutati il 3 marzo scorso di accettare l’incontro a loro proposto dal nuovo segretario di stato americano John Kerry, in occasione del suo primo viaggio al Cairo. Sferzanti le motivazioni: “Washington è soddisfatta della difesa dei suoi interessi da parte dei Fratelli musulmani perché non c’è nessuna differenza tra il regime di Mubarak e quello di Morsi”.”

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