INTERVISTA A GIANREMO ARMENI (a cura di David Taglieri)

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Viviamo l’epoca dei sospetti e della dietrologia, con un proliferare di tesi su tutto lo scibile umano provenienti anche da persone meno competenti nei settori specifici, che pur di mettersi in evidenza sui social network, sparano spesso le tesi più improbabili per intravedere, dietro spiegazioni semplici, i complotti più improbabili.

Su questo stampa e tv navigano indiscutibilmente con grande comodità, perché ciò si sostanzia nella scrittura di programmi televisivi, radiofonici, di libri che in termini semplicistici portano denaro e audience.

Esiste poi chi ricerca la verità, senza celare i fatti ma senza nemmeno escogitare teorie arzigogolate e complesse solo per riempire le pagine di inchiostro, o i palinsesti di cosiddetta informazione di nicchia.

Incontriamo lo scrittore Gianremo Armeni, sociologo e ricercatore di verità.

Buongiorno Gianremo, innanzitutto le chiedo quale sia secondo lei a livello generale il motore che alimenta il complottismo, sport nazionale non solo italiano, come mezzo per leggere gli accadimenti?

Si tratta certamente di un processo bi-direzionale. Da una parte l’opinione pubblica che fino a qualche anno fa (i dati recenti indicano un’inversione di tendenza), nella stragrande maggioranza dei casi era più incline a lasciarsi sedurre da teorie mirabolanti e clamorose, soprattutto in considerazione del fatto che i fruitori delle notizie non hanno poi la possibilità di confutare concretamente ciò che gli viene somministrato in modo ripetitivo; e proprio la replica ossessiva del messaggio è una delle componenti fondamentali per tacciare di autenticità una notizia incontrollata. Ormai tutti i settori della società sono inflazionati da certi teoremi, la cui moltiplicazione fa sì che non siano nemmeno più suggestionanti, né seducenti. Da parte di chi li formula le ragioni possono essere svariate, dettate da un particolare orientamento psicologico, per cui dietro un clamoroso evento debbano celarsi ineluttabilmente trame torbide messe in scena da governi e potenti organizzazioni. Potrebbero anche derivare da ragioni di natura pregiudiziale, com’è accaduto spesso nel caso Moro, con ingerenze politiche non indifferenti. In alcuni casi entra in gioco anche l’ego degli autori, lo studio parziale della documentazione, il rifarsi a teorie precedenti e da esse farsi suggestionare…

Certamente l’avvento di Internet e la velocità attraverso cui si propaga un messaggio mediatico rappresentano un potente incentivo. Il web soprattutto è stato contaminato da questo virus. In Italia, e in misura maggiore negli USA, è diventato veramente uno sport nazionale, che non risparmia più alcun caso di cronaca. In Francia, diversamente, hanno compreso l’importanza di istituire un corso didattico per mettere in guardia le nuove generazioni da questo flagello che offusca la realtà storica e a tratti ha le sembianze di un vero e proprio delirio collettivo. Attenzione tuttavia, c’è dietrologia e dietrologia. Andrebbero distinte le inchieste che adottano una seria metodologia di lavoro, con le quali è auspicabile confrontarsi, da quelle che sfociano in vere e proprie derive fantasiose.

La politica italiana è avvelenata oggi come ieri dallo scontro ideologico, dalle contrapposizioni fra tifoserie, anche sulle questioni più serie, dove la collaborazione potrebbe essere linfa vitale per superare i problemi; intravede probabilità di uscire da questa impasse?

Ho molte perplessità al riguardo. E’ sufficiente vedere gli esiti di alcune votazioni in Parlamento su alcune proposte di legge sensate e utili alla collettività. Pur di non decretare agli occhi dei cittadini il successo politico di chi le ha avanzate si vota contro adducendo argomentazioni poco convincenti.

A settembre il suo libro si è aggiudicato il premio letterario del Cerruglio. Cosa rappresenta per uno studioso questo tipo di riconoscimento?

In generale, un premio letterario certifica la bontà del lavoro svolto attraverso la valutazione di una giuria composta da intellettuali, studiosi, e lettori. Nella fattispecie, invece, assume una duplice rilevanza, soprattutto in considerazione del fatto che l’autore della prefazione, Vladimiro Satta, si è aggiudicato altri due premi con il volume “I nemici della Repubblica”, quello del Friuli e il premio Acqui storia. In tutti i casi, le giurie hanno premiato l’approccio metodologico che ha prodotto i lavori editoriali, e questo significa che probabilmente stiamo assistendo a un’inversione di tendenza rispetto al passato dove un lavoro d’inchiesta di natura dietrologica e complottistica acquisiva una credibilità maggiore.

Qual è il suo segreto nell’intercettare l’attenzione degli interessati alla storia?

Personalmente credo stia tutto nel metodo e nello stile narrativo. Un linguaggio semplice ma allo stesso tempo elegante e armonioso, permette al lettore di scorrere le pagine senza appesantire la comprensione. Una metodologia di lavoro basata sulla citazione rigorosa delle fonti, sullo studio di un vasto complesso documentale, e su un orientamento non pregiudiziale, fa trasparire una certa onestà intellettuale, che tuttavia non rappresenta certamente la garanzia che possa mettere l’autore al riparo da eventuali dissensi rispetto alle tesi esposte nell’indagine storiografica.

In “Romanzo Brigatista”, affronta la spinosa questione delle brigate rosse; c’è tutta una narrazione editoriale e cinematografica che va alla ricerca di attenuanti rispetto a quel mondo, quasi producendo attorno a quei personaggi l’aureola di un mondo sintetizzabile nella formula più volte sentita, compagni che sbagliano. Differente il suo approccio, anche qui ci vuole sintetizzare in un dipinto le immagini di questo libro?

Sicuramente la locuzione “compagni che sbagliano” è la più inflazionata. Tuttavia, anche dalle tribune parlamentari si udì uno degli slogan più spregevoli di un periodo storico che vide sulle strade italiane un morto alla mattina e uno alla sera: “Né con lo Stato, né con le Br”. In “Romanzo Brigatista” sono presenti elementi di condanna per il salto del fosso, ma allo stesso tempo il testo vuole far conoscere la genesi dell’organizzazione armata attraverso lo strumento leggero della narrativa.

Tante volte da destra a sinistra si sentono proferire illazioni malinconiche riguardo la contrapposizione ideologica, quando ci si confrontava fino quasi ad uccidersi su presunti valori che per quanto virtuosi non giustificavano il sacrificio della vita umana, che è universalmente prepolitica. È pur vero che la democrazia del digitale oggi si spertica in discussioni sull’ultimo modello di cellulare, o sulle diete, o addirittura sull’abbigliamento come scrisse anni fa Massimo Fini su Libero. Gianremo, da sociologo e da storico, esiste una giusta misura fra questi due estremi nell’approccio alla realtà da parte delle persone comuni e di quanti hanno responsabilità (politiche, comunicative, artistiche etc) ?

I nostalgici del passato non riescono ad accettare che la realtà sociale e politica non può più essere indagata esclusivamente attraverso gli strumenti in loro possesso, quelli che hanno contraddistinto il secolo breve. Ogni epoca è intrisa di disfunzioni sistemiche con le quali confrontarsi. Mantenere il calendario bloccato al passato e limitarsi a rimpiangerlo, volgere lo sguardo sul retro ogni volta che l’attualità risulta difettosa, non è sinonimo di avalutatività. A ben guardare, le misure sono più giuste oggi che nei decenni che ci siamo lasciati alle spalle.

Nella ‘strategia vincente del generale della Chiesa’ si concentra su una figura fondamentale per la storia italiana. Che idea si è fatto di questo servitore dello Stato, ce lo potrebbe descrivere?

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato un precursore, un innovatore, e uno dei personaggi più moderni della storia d’Italia. Ha rivoluzionato le tecniche investigative esasperando la fase dell’analisi (intelligence) e dello studio dei fenomeni criminali complessi, sperimentando al contempo nuove metodologie di contrasto. E’ stato moderno anche quando i mezzi tecnologici a disposizione non potevano essere considerati tali.

Come evinciamo dalla lettura dei suoi libri, il dato storico, quello sociologico e quello legato all’attualità vanno di pari passo. Quanto è importante l’interdisciplinarietà quando si vuole veicolare un messaggio letterario o giornalistico?

Certamente un approccio interdisciplinare permette di spiegare e di ricostruire un fenomeno sociale, un caso di cronaca, un fatto storico, in maniera più organica e di ridurre il livello di astrazione, fermo restando che non sempre se ne avverte la necessità di farne ricorso.

Un’altra barriera che divide l’Italia è quella fra garantisti e giustizialisti, e anche lì il fenomeno è divenuto trasversale fra destra e sinistra. Cosa ne pensa della spettacolarizzazione della Magistratura, stigmatizzata anche nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario?

Il richiamo seducente dei riflettori ha investito in modo trasversale chiunque, a prescindere dal ruolo e dallo status. L’imponenza dei mass media sulla società ha catalizzato la ricerca del protagonismo mediatico, e il fenomeno ha raggiunto livelli parossistici di aberrazione quando i processi, prima di entrare nelle aule giudiziarie, si sono svolti in televisione. Per quanto riguarda l’esibizionismo di alcuni magistrati, resto convinto che si tratta di un aspetto che investe un’esigua minoranza rispetto alla totalità di professionisti del diritto che operano nel più totale silenzio mettendo a rischio la loro vita tutti i giorni.

Il popolo è stato abituato alla mediocrità. Crede ad un ritorno verso tv, radio e giornali di qualità?

Sono molto scettico perché la qualità non vende, se non in casi estremi.

Progetti per il presente ed il futuro?

Nell’immediato futuro c’è l’idea di portare a termine un altro studio sul caso Moro e subito dopo una ricerca sulla genesi della mafia.

Grazie da Recensioni e Storia e da David Taglieri

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