PRIMATO DELL’ESSERE (di Cosimo Galasso)

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Aristotele e Platone

Seguendo l’invito di Dreher ad approfondire sempre meglio la dottrina della Chiesa, continuiamo la nostra riflessione sulla natura della verità. In un precedente intervento abbiamo visto come la filosofia realista poggi le sue solida fondamenta sulla speculazione di due giganti del pensiero: Platone (anche Socrate, in realtà, che si “esprime” tramite lui) e Aristotele.

Il grande filosofo del novecento, padre Cornelio Fabro (1911-1995), con la solita maestria ed acribia, così sintetizzò, efficacemente, la questione relativa alla verità trascendente, partendo dai due “giganti”: “La saggezza tutta pratica di Socrate diviene via via in lui una saggezza contemplativa, una theoria che è attingimento dell’idea suprema del bene trascendente e insieme norma ultima dell’azione. Il termine theoros, che nell’uso popolare linguistico designava lo spettatore partecipante alle feste religiose comunitarie, acquisisce da questo momento una pregnanza semantica straordinaria, denotando colui che contempla l’assoluto bene, principio e fondamento di ogni essere e di ogni valore. (…) Con Aristotele subentra una innovazione linguistica decisiva: dall’uso ancora promiscuo del Protreptico egli passa quasi subito a distinguere la phronesis socratico-platonica dalla sophia, riservando alla prima il compito pratico di dirigere la vita umana mediante il giudizio normativo fondato sulle virtù morali rettificanti l’appetito, e alla seconda invece la conoscenza teorica delle prime cause, cioè l’esercizio stesso della filosofia nel suo atto contemplativo più alto delle cose belle e divine.(…) Il sapiente dunque, secondo Aristotele, è il theoros o il metafisico che si eleva sino alla conoscenza del pensiero primo; a questo livello della filosofia prima egli non è più uno che ricerca, bensì uno spettatore che già possiede l’oggetto bramato”.

L’uomo, dunque, non “fabbrica” la verità, ma la “scopre” nel momento in cui adegua il suo intelletto alla realtà: la “contempla”, da “spettatore”, nel senso etimologico, come abbiamo visto.

Una riflessione siffatta spazza via ogni pretesa relativista, ogni opzione presumente la realtà come qualcosa di inesistente, in sé, e dipendente dai capricci e dalla volontà cangiante dell’uomo del XXI secolo: questo è un grosso insegnamento, una valida “roccia” nella quale “piantare” il “chiodo” del dialogo, inevitabile, con l’uomo postmoderno, convinto, a partire da Immanuel Kant e fino a giungere ai  nostri giorni, di essere non uno scolaro del reale, ma, al pari di Dio stesso, un  creatore e legislatore di esso, con tutte le nefaste c necessarie conseguenze derivanti: decidiamo noi chi debba o non debba vivere, annulliamo la libertà di coscienza delle persone, per subordinarla alla “ragion di Stato “ e così via…

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