FINI, TRA “PAROLE TALISMANO” E PITONI (di Guido Verna)

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finiAll’acme del periodo cosiddetto della “casa di Montecarlo”, qualche intellettuale di area finiana ha ricordato — sbagliando, però, il versante di riferimento — uno splendido libro di qualche anno fa:  “Il Montaggio” di Vladimir Volkoff (Guida editori, Napoli 1992). Nel romanzo, ambientato nella Parigi degli anni ‘80 durante la piena fioritura del mondo comunista, si racconta della tecnica chiamata come il titolo del volume e utilizzata dalla polizia  politica dell’Unione Sovietica, il famigerato KGB, per organizzare ovunque uno o più “fatti” — ma soprattutto per organizzare le interpretazioni degli stessi — al fine, nel caso raccontato, di “annientare i dissidenti” (come si legge nel risvolto di copertina).

 

 

La tecnica, evidentemente, è praticabile anche per “fatti” casuali o almeno non programmati. Si prende atto di un “evento”, si “studia” e, se utilizzabile per un certo scopo, si organizza il Montaggio. Il Centro ermeneutico comincia allora a lavorare — utilizzando il potente apparato mediatico di cui dispone e l’altrettanto sempre disponibile supporto inquinante dei moderati “utili idioti” — per sfrondare e modellare “le” interpretazioni, cercando di uniformarle, lentamente ma inesorabilmente, a “quella” prefissata in sintonia con lo scopo,  fino a che la crescente platea di condivisione non diventa tanto ampia da farla accettare come l’interpretazione autentica e indiscutibile anche da parte di chi vedeva diversamente il “fatto” e che, ormai, posto in condizioni di assoluta minorità ritiene indifendibile la sua posizione. 

 

IL MONTAGGIO
IL MONTAGGIO

Per la perfezione del Montaggio, è necessario coniare anche “parole talismano” — per usare un’espressione di Plinio Corrêa De Oliveira nel suo mirabile Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo (Edizione de L’Alfiere, Napoli 1970) — piene di fascino e di sonorità anche se vuote di senso e soprattutto di aderenza al reale, a ripetere le quali vengono comodi soprattutto i citati “utili idioti” e la cassa di risonanza dei loro giornali “obbiettivi” per antonomasia. 

Ebbene, durante il periodo cosiddetto della “casa di Montecarlo”, è stato operato un grande Montaggio, come nel bel tempo che fu (ma che pare esserci ancora).

Il problema era a prima vista semplicissimo: qualcuno — di alto profilo pubblico — aveva alienato un bene non suo, affidatogli prima di morire da una generosa nobildonna per continuare la “buona battaglia”, utilizzando una procedura incredibile. Trattandosi di un appartamentino da 70 mq, per di più a suo dire di scarso valore, invece di affidarsi banalmente ad una classica Agenzia immobiliare come avrebbe fatto qualsiasi pover’uomo come noi, il rappresentante degli “eredi” riteneva di dover solcare gli oceani per raggiungere un’isoletta a 7.000 km. Che qualcuno gli chiedesse il perché di un comportamento così inconsueto e così anomalo, sembrava il minimo. In più, se avesse risposto, poteva approfittare anche per gettare un po’ di luce sull’altro dubbio insorto circa l’ipotetica coincidenza tra acquirente e affittuario, un dubbio tanto sorprendente quanto corrosivo perché coinvolgeva il fratello minore della sua “compagna”. Il problema pareva semplicissimo, ma subito si complicava maledettamente per le inattese chances che i nemici del “tiranno” al potere intuivano potesse loro fornire — in vista del suo definitivo abbattimento — per annichilire le sue truppe, che è come dire per “annientare i dissidenti” verso il nuovo PCI (Politicamente Corretto Italiano), un acronimo che aiuta a ricordare, ma anche a collegare.

 

Il logo del KGB
Il logo del KGB

E allora, piano piano, ma in misura sempre crescente fino all’intossicazione, è cominciato il Montaggio, con la successiva introduzione nel lessico comune delle “parole talismano”, la prima delle quali, se non ricordo male, è stata lanciata da D’Alema — uno che avendo studiato da piccolo a Mosca, conosce bene queste tecniche — quando ha accusato i giornalisti di praticare il “metodo Boffo”. Tale metodo definirebbe il comportamento di giornalisti senza scrupoli e senza pietà che, pur in assenza di prove,  aggredirebbero dei poveri uomini con basse accuse sul piano personale e privato. Con questo primo passaggio, si cerca di spostare l’attenzione e la riprovazione delle persone verso il giornalista “cattivo”, per lasciare in un cono d’ombra fitta l’accusato e soprattutto le accuse che gli sono rivolte, fino a retrocederle nel dimenticatoio. 

Ora, fra persone con un po’ di amor proprio e di senso morale residuo, la “vittima” che fosse accusata di “cattivi” comportamenti avrebbe molto più interesse a difendere anzitutto la propria immagine che a “sputtanare” il carnefice-giornalista, operazione se mai da fare dopo — e dimostratamente pour cause. Se poi la “vittima” fosse anche un cattolico esplicito, ritengo — ma il discorso porterebbe lontano — che avrebbe anche qualche “dovere” morale in più.  In ogni caso, era lecito aspettarsi una reazione diversa. Non: siccome il giornalista è un mascalzone, quello che scrive non è vero; bensì: siccome fornisco le prove che quello che scrive non è vero, il giornalista è un mascalzone al quadrato. Invece, silenzio. Quindi, in realtà se c’è un parallelismo tra i due casi, non lo è tanto per il “metodo Boffo” quanto piuttosto per il “comportamento Boffo” (lo chiamo così solo per fare da pendant al metodo; naturalmente, per Boffo non costituisce affatto una prova della sua colpevolezza, anche se ha lasciato perplesse molte persone), un comportamento che può definirsi così: “rifiuto da parte di un personaggio pubblico di dare una risposta pubblica ad una accusa pubblica”. Ovviamente, mi riferisco a personaggi pubblici che non rappresentano solo sé stessi ma che hanno alle spalle un mondo di “rappresentati”. Altrettanto ovviamente, mi riferisco alla risposta non sugli elementi di contorno quanto invece sulla autentica quidditas dell’accusa, i cui esiti in qualche misura si riversano anche sul mondo che li ha eletti o nominati a  “rappresentarlo”.

 

Poi si è passati alla fase dietrologica, da spy story alla Ian Fleming. E le “parole talismano” sono diventate allora pesanti, impegnative, ma anche piene di fascinazione e di mistero, evocatrici di servizi segreti deviati e di pedinamenti notturni, di passaggi di microfilm nel retro di un bar a luci basse che sa di sigaro cubano e di rhum, su un’isola piena di scimmie e di banane. Comunque sia, si trattava di parole perfette pour épater le bourgeois e per intimorire  — e quindi convincere — gli “utili idioti”: killeraggio e dossieraggio! Parole che a vedere i volti degli accusatori, solo a dirle dovrebbero dare il piacere di un gargarismo alla menta piperita …

 

Poi — ma l’ordine non vuole essere cronologico — arrivano i governanti di Santa Lucia. E i “montatori” danno avvio alla fase del disprezzo antropologico: “lì” anche un vigile urbano può diventare ministro, “lì” è solo una repubblica delle banane. Facce talmente disgustate da tenere a mente come prototipi di somatizzazione di pulsioni razziste. Un documento o una dichiarazione prodotta da uno “così” su un’isola “così” … puah … da un ministro che potrebbe essere un vigile urbano corrotto e per di più di una repubblica delle banane … puah … Mancava solo che aggiungessero: è anche negro! Una autentica vergogna. 

 

Poi, ancora, si lancia sul mercato un prodotto nuovo: la “macchina del fango”. I cui esiti infelici — quando si dice, l’eterogenesi dei fini! — sono stati descritti da Krancic in una sua fulminante vignetta, nella quale due personaggi sono immersi in un elemento melmoso. I l primo dice al secondo: “Capo, siamo nella m…a!”. E il secondo: “Fango, Bocchino, fango!!!”.

 

Poi, finalmente, l’agente segreto: Lavitola, il James Bond dei Caraibi. Ma anche il documento da lui prodotto è un falso, “deve” essere un falso, perché, lui, lo 007 non più misterioso, non può essere credibile non solo perché consueto visitatore delle repubbliche delle banane bensì soprattutto in quanto direttore di un giornale che è una patacca in sé stesso per la sua tiratura ridico la. Non ricordo chi abbia fatto quest’ultima affermazione ma temo che si tratti di qualcuno che frequenta o ha alle spalle giornali che forse non hanno tirature giapponesi. Se come conferma veritativa di un articolo o di un documento pubblicato si usasse il “criterio della tiratura”, il Secolo, per esempio, sarebbe — fin dalla fondazione — un produttore di patacche. Oggi poi, sarebbe addirittura una perfetta macchina della menzogna.

 

Ma dall’inizio alla fine, le grandi “parole talismano” che aleggiano su ogni evento sono: “giornale di famiglia” e “giornalisti di famiglia”. Fra tutte mi sembrano le più sciocche, ma forse sono le più utili per identificare i più sciocchi, quelli che più di tutti si sono fatti abbindolare e che ascolti dal barbiere o sul pullman. Si potrebbe chiedere loro: avete memoria di scudisciate sulla schiena della famiglia Agnelli da parte della coraggiosa redazione della Stampa? O di violente dissimmetrie nei confronti di De Benedetti da parte degli spericolati giornalisti di Repubblica? O di spregiudicati attacchi del Sole 24 ore alla Marcegaglia? O di frustanti intemerate contro il papà o il marito della Signora Azzurra Caltagirone in Casini da parte degli eroici giornalisti del Messaggero comandati da Napoletano ? Per non parlare delle indipendenze e delle libertà dei direttori dei giornali di partito …

 

Siamo al punto. Supponiamo che la casa non sia né della “moglie” né della “suocera” né del “cognato”. Supponiamo che a Santa Lucia viga una repubblica delle banane e che il suo Ministro della Giustizia sia un ex vigile urbano prezzolato. Supponiamo che Servizi Segreti Deviati e Guardia di finanza abbiano prodotto contro il Presidente e la sua “famiglia” dossier da riempire decine di faldoni. Supponiamo che Lavitola sia solo un traffichino che impiccia ai Caraibi  a spese del “capo” e che beve Bloody Mary solo per darsi un tono. Supponiamo e concediamo tutto. 

Rimane però, un problema, “il” problema. Il problema per il quale Fini avrebbe dovuto rispondere chiaramente e rapidamente: perché per vendere una casa a due passi dalla frontiera ligure ha ritenuto di dover prendere lo yacht e traversare l’oceano? E perché venderla a soggetti misteriosi?  Soprattutto per il fatto che non si trattava di una casa qualunque, ma di una casa che aveva una dignità intrinseca derivante dall’essere stata lasciata in eredità da una nobildonna non a lui, ma a “un mondo” politico e culturale in cui lei si riconosceva, allo scopo di fornirgli qualche piccolo aiuto in più per continuare a combattere la “buona battaglia”. Per “quel” mondo, “quella” casa aveva un valore morale ben maggiore del suo valore economico, perché “quel” mondo — ecco la quidditas — considerava come valori la fedeltà alla memoria di un morto, il rispetto della parola data, l’onore e la verità (con la minuscola, ma per molti anche con la maiuscola).

A “quel” mondo, per “quella” quidditas, Fini doveva una risposta. Non l’ha data, come era d’altronde facilmente prevedibile non facendo più parte di “quel” mondo da qualche anno. Nella lunga traversata, su un grande yacht, pieno finalmente di “bella” gente e non più “di marescialli in pensione e di casalinghe di Voghera”, magari mentre prendeva il sole in coperta sorseggiando un drink, ha avuto il tempo e l’agio di gettare nell’oceano, in pasto agli squali, anche quel poco che di quei valori poteva rimanere. Passi per la Perina e la Buongiorno, passi per la Moroni e Della Vedova, passi per Bocchino e Granata, per Urso e Briguglio, ma in tanti altri che lo hanno seguito era lecito attendersi una sussistenza meno evanescente delle peculiarità morali di “quel” mondo. Ma in fondo è meglio così, che la commedia degli inganni sia finita. “Loro”, sono un mondo nuovo, sono il futuro.

 

Ma la commedia degli inganni non è ancora cessata del tutto. Quando si parla dei vecchi amministratori del patrimonio di cui quell’appartementino era un elemento, sarebbe bene, da parte dei non finiani, di smetterla con il mantra che “si tratta di galantuomini”. Se lo sono davvero — e, fino a prova contraria, anch’io non ho alcun motivo per dubitarne — lo dimostrino aiutando “quel” mondo a sapere finalmente la verità, surrogando l’avvilente e sprezzante silenzio degli altri. “Quel” mondo se lo meriterebbe se non altro perché ha attraversato il tempo soffrendo e rimettendoci forse qualcosa in più del pavone che ora apre la ruota.  

“Quel” mondo disprezza chi non spiega perché sono stati tolti i fiori da una tomba.

 

«La massima raffinatezza — diceva il vecchio Abdulrakmanov [il grande cervello del KGB] ai suoi discepoli — è di rendere i vostri montaggi biodegradabili». (p.246)

 

Santa Lucia, però, non sarà facilmente biodegradabile. Per molto tempo ancora — non solo il 13 dicembre in cui si celebra la sua festa ma per tutto l’anno, ogni volta che si invoca a protezione della vista — Santa Lucia farà tornare in mente anche un’isoletta dei Caraibi, una volta sconosciuta, dove c’è il governo delle banane, dove i Ministri possono essere mediocri personaggi prezzolati da 007 privati, ma dove però si possono misteriosamente vendere le case di Montecarlo.

THE LITTLE PITONE negli occhi di chiunque ripenserà all’isola, riemergerà l’immagine che la caratterizza fino a diventarne il simbolo: quella di due coni vulcanici.

I due coni si chiamano The Pitons

The great piton e the little piton

 

Guido Verna, 3 ottobre 2010

 

 

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