I due ragazzi sono seduti su una panchina, e assaporano – come me – la leggera brezza serale che porta via l’afa di questo fine agosto. Non mi va di essere invadente; tentenno. Poi la voglia di parlare e la curiosità – come al solito – prevalgono. Gli chiedo: scusate, siete Eritrei ? La risposta non si fa attendere: sì.
Gli spiego che sono un appassionato di storia africana e che mi interesso di politica internazionale. Sembrano convinti: la conversazione può iniziare. Avranno 20, al massimo 25 anni, e i bei tratti inconfondibili del popolo eritreo.
Gli chiedo subito delle ostilità fra Eritrea ed Etiopia.
“Adesso non c’è la guerra. Al confine ci sono stati gli osservatori dell’ONU per vigilare sulla tregua. Ma tutti gli uomini sono comunque mobilitati. Dopo un anno di servizio militare si ha diritto a tre settimane di riposo a casa; poi si ricomincia con un altro anno al fronte o in caserma. Per i ragazzi non c’è vita, non c’è speranza…“
E’ per questo che siete andati via dal vostro Paese?
“Sì, anche per questo. Adesso non possiamo più rientrare in Eritrea. Se lo facessimo, ci arresterebbero subito.”
Come siete scappati?
(Sorridono). “Una grande avventura. Abbiamo passato il confine con il Sudan. Lì non fanno troppi problemi. Anche se la polizia ti arresta, ti lasciano al massimo 15 giorni in prigione. Poi gli spieghi che hai problemi e ti lasciano libero. Puoi andare dove vuoi…”
E voi dove siete andati?
“Abbiamo attraversato il Sudan su un fuoristrada fino al confine con la Libia. Abbiamo continuato il viaggio nel deserto libico, sino alla costa, sul Mediterraneo.”
Come è stata la traversata del deserto?
“E’ durata cinque giorni, senza incontrare nulla. Acqua, cibo e benzina: c’era solo quello che portavamo con noi. Se le scorte finivano, saremmo finiti pure noi.”
Per fare questo viaggio ovviamente hanno pagato molto, affidandosi a quelle organizzazioni criminali che trafficano e speculano sull’immigrazione clandestina. Ma anche in Libia hanno continuato a pagare.
“Ci hanno portati a Tripoli, una città molto bella. Ma la gente no, non è buona. Non potevamo uscire per strada, perché ci riconoscevano come stranieri e come cristiani… Ci fermavano per strada e ci chiedevano soldi, in cont inuazione. Se non pagavamo erano botte. Con il rischio che la polizia ci arrestasse e ci rispedisse nel deserto, a Koufra. (nell’estremo sud-est della Libia).”
E voi che avete fatt o?
“Siamo stati un mese a Tripoli, nell’attesa di partire per l’Italia. Per paura passavamo tutto il giorno chiusi nella casa che ci ospitava. Non uscivamo mai. C’era una ragazza con noi. Le davamo i soldi e lei ci comprava qualcosa da mangiare.”
Non era pericoloso anche per lei uscire per strada?
“No, di giorno una ragazza può camminare e la lasciano stare. Per noi uomini era diverso.”
Come capivano che eravate cristiani?
“Non siamo arabi, e se ci chiedevano di leggere il Corano non sapevamo farlo. Ma a parte tutto, a chi ce lo domandava, noi rispondevamo: sì, siamo cristiani.”
In effetti i due ragazzi si dichiarano cristiani: uno cattolico e l’altro evangelico.
A proposito di cristiani, qual è la situazione religiosa in Eritrea?
“In Eritrea il 40% della popolazione è musulmano; il 60% è cristiano: cattolici, ortodossi, evangelici…”
Ci sono problemi di libertà religiosa?
“Sì, soprattutto per evangelici e testimoni di Geova. Molti di loro sono in prigione, nelle isole Dahlak, al largo di Massaua, nel Mar Rosso.”
Perché proprio evangelici e Testimoni di Geova?
“Sono visti come estranei alla nostra cultura, quasi come emissari degli Stati Uniti, e quindi pericolosi. Il nostro Presidente, Isaias Afewerki, non ama gli Stati Uniti…”
E chi ama?
“L’Eritrea ha buoni rapporti con la Cina, ma anche con l’Iran.”
Torniamo alla vostra fuga. Eravamo rimasti in Libia. Come siete arrivati in Italia?
“Ci hanno portati in un villaggio sulla costa, nei pressi di Bengasi. Là ci hanno caricati su un gommone. E così siamo arrivati a Lampedusa.”
I due ragazzi hanno chiesto e ottenuto asilo politico. Adesso vivono e lavorano in Italia. Si trovano bene. Sono stati molto fortunati e lo sanno bene.
“Abbiamo avuto molta fortuna ad arrivare fin qui. Qui siamo liberi. Sì, questa è la cosa più bella. Il posto migliore è dove tu sei libero…”
Il cellulare di uno dei due squilla. Qualcuno lo chiama. E’ tempo di andare. Anche per me che ho importunato con le mie domande questi due simpatici ragazzi eritrei. Ci salutiamo con una calorosa stretta di mano. “Buona fortuna”, gli dico. Mi sorridono e se ne vanno. Anch’io riprendo la mia strada, e con fatica scaccio un pensiero forse cattivo, di sicuro “politicamente scorretto”: il processo d’integrazione degli immigrati cristiani è molto più facile.
Eppure quanti cristiani eritrei o palestinesi o iracheni non riescono a giungere fin qui, o sono morti nei deserti o in fondo al mare…o giacciono ancora in qualche lurida prigione libica.
Chi se ne ricorda, di questi fratelli cristiani ?
veramente interessante. E ben raccontato.