LA CONDIZIONE DELLA DONNA NELL’AFGHANISTAN DEI TALEBANI

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Riprendiamo dalla STAMPA del 05/07/2023 – pag.21 – con il titolo “Fatwa sulla bellezza” il commento a firma Mahboba: “Due anni fa a Kabul ero una dottoressa, una chirurga. Lavoravo in ospedale e tenevo lezioni all’università come assistente alla facoltà di medicina. Ora sono una rifugiata politica in attesa da quasi due anni del riconoscimento del titolo di studio e mi mantengo con lavoretti temporanei.

Nei primi tempi ho fatto la cameriera e ora lavoro come traduttrice per rifugiati, come coordinatrice di un progetto di salute per migranti, e nel tempo libero faccio la volontaria per Caritas e Intersos. Dopo 12 anni di studio, di cui sette all’università interrotti per l’arrivo dei taleban e sei di specializzazione, mi ritrovo a 35 anni a ricominciare da capo, come se non avessi una storia. Non è facile.

Da Kabul sono partita nel settembre 2021, ma non sono stata tra le prime. A dire il vero, l’università mi aveva contattato per chiedermi se volevo essere inserita nella lista delle persone da evacuare. Sarei partita per gli Usa, dove la mia facoltà aveva una collaborazione. Ho risposto: «no, sono un medico, il mio lavoro è qui, che mi possono fare i talebani? Hanno bisogno di me».

Ora rimpiango quella scelta. Un mese dopo sono dovuta partire comunque. Non avevo altra possibilità. In ospedale non mi facevano entrare in sala operatoria, dicevano che era un lavoro per uomini. Nemmeno all’università sono più entrata. A fermarmi davanti alla porta sono stati due ragazzetti di diciassette anni. «Tu non hai il permesso di venire qui» mi hanno detto. Per spostarmi usavo il taxi guidato da un familiare. Mi hanno fermato una sera di agosto del 2021 mentre ero in macchina. «Perché sei da sola? Perché così tardi?». Ho spiegato che ero una dottoressa, che tornavo dal mio lavoro ma non gli è bastato. Sono stati brutali nel farmi capire che non avevo il permesso di muovermi se non accompagnata. Era diventato impossibile continuare la mia vita e grazie ad un’organizzazione femminista sono potuta fuggire, ma la gran parte della famiglia è rimasta lì. E la situazione peggiora ogni giorno.

All’inizio i talebani dicevano che le donne potevano svolgere un lavoro, potevano studiare nei limiti consentiti dalla legge islamica. Ma non è mai stato così, sono rimaste solo parole diffuse sui social media. Le restrizioni delle nostre libertà sono arrivate subito goccia a goccia. Tante mie colleghe di ospedale che non sono fuggite allora, adesso mi chiamano disperate chiedendomi aiuto. Solo chi lavorava nelle maternità ha potuto tenere il lavoro a Kabul. Ma con un sacco di limitazioni rispetto al passato.

Devono indossare l’hijab in sala operatoria, non possono toccare i colleghi maschi, né spostarsi liberamente all’interno dell’ospedale. Ai talebani non piace vedere le donne negli spazi pubblici. Le vogliono solo in casa come schiave sessuali. È per questo che ora hanno vietato l’ingresso anche nei parrucchieri e nei saloni di bellezza. Se le donne mostrano apertamente il loro aspetto, loro temono di perderne il controllo. Dentro casa le donne sono trattate davvero come oggetti di piacere. Ho visitato tante abitazioni e come medico sono stata testimone di terribili abusi sessuali sulle ragazze da parte di zii, cognati, padri.

Noi siamo il 50% della popolazione in Afghanistan, ma vogliono reprimerci perché temono la nostra indipendenza. In realtà le donne continuano a fare il loro lavoro dentro casa, ma è diverso. C’è come una pressione psicologica che aumenta giorno per giorno. Noi siamo per i talebani uno strumento per tenere la comunità internazionale sotto pressione, ma la realtà è che in Afghanistan c’è una vera persecuzione (…).”.