LA RABBIA E L’ORGOGLIO – 1^ PARTE (di Omar Ebrahime)

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Il 29 settembre 2001, rompendo un silenzio che durava da dieci anni, la scrittrice e giornalista fiorentina Oriana Fallaci (1929-2006) pubblicava sul quotidiano Il Corriere della Sera un lunghissimo articolo (quattro pagine e mezzo) in cui esprimeva di getto le sue impressioni di osservatore diretto e testimone oculare relativamente a quello che definiva né più né meno come l’“Apocalisse”, ovvero l’attacco terroristico perpetrato l’11 settembre per mezzo di due aerei di linea dall’ultrafondamentalismo islamico sulle due torri del World Trade Center di New York.

L’articolo, passionale e istintivo, pur nell’ambito di una visione del mondo lucida e anzi ragionata, diede luogo a polemiche incandescenti sullo stesso giornale e in generale un po’ ovunque tra i maggiori opinionisti politico-culturali del Paese. Quel “J’accuse”, come la stessa autrice lo definì, non era però stato pubblicato per intero e solo tempo dopo la casa editrice Rizzoli mandò in distribuzione (con un’apposita prefazione ai lettori) tutta la versione nel saggio che ora recensiamo, attualissimo ad anni di distanza (O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano 2002, Pp. 164). E proprio la Prefazione d’apertura spiega la foga dell’accorato sermone della scrittrice: nelle pagine introduttive, infatti, questa propone a sorpresa l’accostamento tra il bellicoso totalitarismo nazifascista dell’Europa negli anni Trenta e il ‘nuovo’ totalitarismo islamista che grava oggi sull’Occidente, legando così i proclami di Osama bin Laden (1957-2011) a quelli di Adolf Hitler (1889-1945).

D’altra parte le significative citazioni scelte di bin Laden (come:  “Nella sua essenza questa [tra l’ultrafondamentalismo e l’Occidente, ndr] è una guerra di religione e chi lo nega, mente” oppure “Tutti gli arabi e tutti i mussulmani devono schierarsi, se restano neutrali rinnegano l’Islam”, pag. 23) agli occhi della scrittrice giustificano in toto questa provocatoria equiparazione. Se qualcuno poi provasse a ricondurre la propensione terroristica dei gruppi jihadisti alla sola figura del capo-terrorista saudita ucciso nel 2011, farebbe comunque torto all’evidenza dell’attualità che si mostra nell’area a dominante islamista: “sono milioni e milioni, gli estremisti. Sono milioni e milioni, i fanatici. I milioni e milioni per cui, vivo o morto, Usama bin Laden è una leggenda uguale alla leggenda di Khomeini. I milioni e milioni che scomparso Khomeini ravvisarono in lui il nuovo leader, il nuovo eroe” (pag. 24). In ogni caso, se si volesse affrontare la questione nel suo complesso, va pur detto che la galassia islamica attualmente “affoga nell’analfabetismo, (nei paesi mussulmani la percentuale dell’analfabetismo non scende mai al di sotto del sessanta per cento)” (pag. 25), per cui si comprende come mai l’indottrinamento ‘da strada’ dei vari mullah e imam tra moschee e madrasse, spesso rozzo quando non apertamente belligerante, eserciti (non solo in Afghanistan o in Iraq) un potere indiscusso tra le masse e obiettivamente formidabile per il supporto ai regimi. Tra l’altro, guardando alle radici geografiche del radicalismo religiosamente connotato, gli stessi profili degli attentatori-suicidi di New York e Washington dimostrano in realtà che l’origine del piano espansionistico sfiorava appena i confini di Kabul, anzi “tra i diciannove kamikaze […] non c’era nemmeno un afgano e i futuri kamikaze hanno altri luoghi per addestrarsi, altre caverne per rifugiarsi” (pag. 26). Insomma, “lo scontro tra noi e loro non è [solo] militare. E’ culturale, è religioso, e le nostre vittorie militari non risolvono l’offensiva del terrorismo” (pag. 27), proprio come negli anni Quaranta – secondo la scrittrice – a confrontarsi non erano solo Alleati e Nazifascismo ma due visioni del mondo e dell’uomo radicalmente alternative, se non proprio antitetiche.

fallaci La scrittrice, poi, confuta decisamente l’altro luogo comune che vede i terroristi alla stregua di disperati che attaccano le ricche metropoli occidentali per motivi legati alla fame, alla miseria o alla povertà: la realtà mostra infatti al contrario che “i terroristi peggiori sono spesso muniti di passaporto regolarmente rinnovato, carta d’identità, permesso di soggiorno” (pag. 29) e conducono un tenore di vita che sociologicamente s’inquadrerebbe senza particolari problemi a tutti gli effetti come ‘borghese’. Approfondendo poi il tema dell’immigrazione islamica in Occidente vi è quindi il piano più propriamente identitario e socioculturale dove la conquista del territorio viene portata avanti – ad esempio – con l’apertura capillare delle macellerie halal (in crescita esponenziale ultimamente in Gran Bretagna) che commercializzano esclusivamente carne lavorata da macellai che seguono alla lettera le norme coraniche. Potrebbe sembrare forse un mero dettaglio di folklore tra tutti i problemi presenti; eppure nella mentalità del combattente islamista anche questo costituisce un successo importante perché – con i vari punti specialistici di ristorazione e intrattenimento già presenti che fanno anche da luogo di raccolta e scambio strategico d’informazioni come gli internet point – danno luogo a un vero e proprio mondo islamico all’interno degli Stati che li ospitano, in cui si riproducono gli stessi stili di vita e gli stessi modelli di comportamento delle qasba di provenienza. Naturalmente si potrebbe obiettare che fino a quando si rispetta la legge in tutto ciò non vi è nulla di male; ma allora occorre pure ricordare che “in difesa della fede il Corano ammette la menzogna, la calunnia, l’ipocrisia” (pag. 31) e questo fa sì che per un osservatore esterno – comprese, talora, le autorità di pubblica sicurezza dei Paesi ospitanti – molto spesso sia semplicemente impossibile risalire ai motivi ultimi che ispirano determinate iniziative sociali o genericamente ludiche, o ricreative, della comunità presente sul territorio.

 (continua)

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