LA RAGIONE AVEVA TORTO (recensione a cura di David Taglieri)

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Il progresso tecnologico ha veramente accresciuto la ricchezza dei saperi e la felicità nella libertà? Oppure la tanto decantata civilizzazione della scienza, non andando di pari passo con la civiltà dei valori umani, ha determinato l’annichilimento dei mezzi a scapito dei fini?

Con tali quesiti di fondo si apre “La Ragione aveva torto”  (pagg. 158, Edizioni Sperling e Kupfer), il libro con cui lo scrittore e giornalista Massimo Fini compie un’analisi delicatamente dettagliata sul confronto fra un presente indefinibile – marcato dalla frenesia iperveloce – ed un passato che non riusciamo più a riconoscere e a decifrare.  E’ comunque un passato che racchiude certezze e convenzioni che, per quanto tradizionali, circostanziavano la vita delle  persone e riuscivano a rappresentare un riferimento basilare a livello umano.

Non di un’esaltazion e b anale del buon tempo andato si tratta, ma della stigmatizzazione dell’uomo moderno, quello che si è costruito delle condizioni di vita intollerabili, nella ricerca dell’opposta finalità di migliorare il proprio tenore di vita.

Il mondo preindustriale era fatto di durezze, sofferenze e fatiche bestiali, con il concetto di sacrificio che a livello materiale e spirituale apportava fortezza di carattere e temprava le personalità.

L’Ottimismo illuminista, perseguendo il migliore dei mondi possibili, ha prodotto in realtà il peggiore universo inimmaginabile.

Modernità è un concetto che da sfogo all’errata ermeneutica del linguaggio, laddove tale termine viene accostato con ripetuta insistenza al falso mito del progresso sic et simpliciter.

La Rivoluzione Industriale può essere studiata sotto molteplici punti di vista, in un’ottica di costi e benefici che possono indubbiamente svelare svantaggi e vantaggi. Ma un dato è certo per l’Autore: da quel momento in poi l’umanità nei rapporti sociali in senso lato ha subito un peggioramento sostanziale.

Qualità della vita – postulato molto diffuso oggi in una prospettiva del breve periodo – è una definizione tanto abusata quanto difficilmente realizzabile.

Il mito della Ragione non ha mai tollerato che si usassero contro di esso le medesime metodologie che pure quello stesso mito ha sempre esercitato per affermarsi. Non per nulla il saggio di Massimo Fini ha suscitato molte polemiche, figlie dell’intolleranza razionalista,  che confuta la fede ma eleva a soprannaturali tutte le scoperte di  tecnologia e scienza,  innalzandole a totem indiscutibile.

Non si tratta di elencare nostalgie – di roussoniana memoria – del buon selvaggio, ma di operare un sano confronto di carattere dinamico, rifiutando l’accettazione acritica di tutto quanto proviene dal mondo della post-modernità.

L’idea di progresso – quale noi la intendiamo oggi – era estranea alle civiltà classiche, greca, latina, e alle antiche civiltà mediorientali; furono ebrei prima e poi cristiani ad  introdurre un elemento del  tutto nuovo, postulando un fine verso cui si dirigerebbe la storia. Nacque in questa maniera la concezione teologica della storia, anni luce distante dalla visione illuminista secondo cui la storia era principalmente evoluzione progressiva, avente per fine la miglior condizione possibile per l’uomo sulla terra.

L’Ottimismo illuminista aveva alla sua base l’incipiente fiducia che la tecnica potesse risolvere tutte le aspirazioni, i desideri, le volontà dell’uomo, dimenticando, però, che la ricerca della mera materialità cela talvolta un’esigenza innata verso un Infinito di leopardiana memoria.

Il punto è che la storia divide e schematizza due categorie di uomini, quelli che credono di trovare il Paradiso nel mondo ultraterreno e quelli invece che sono convinti di potersi fabbricare “in casa” con i propri mezzi la Felicità somma, proprio qui sulla terra.

Ci si arricchisce in questa lettura affrontando il capitolo relativo alla vita, alla morte e all’anima: l’uomo di ieri  accettava la morte, anche con determinati rituali, attraverso un rispetto per il  sacro  e la devozione nei confronti  delle anime dei defunti, rappresentata degnamente dal silenzio, che oggi è cop erto dagli applausi d emenziali e rumorosi.

Per noi oggi la morte è pornografia, nel senso che non se ne può parlare, è tabù, meglio piuttosto alimentare la distrazione nei centri benessere, affinché l’oggi sembri eterno.

Prima la vita durava molto meno, le condizioni erano più difficili, e lo stesso Dante ne fissò la metà dell’arco verso i 35 anni, “…nel mezzo del cammin…”.

Come l’uomo preindustriale accettava quale fatto inevitabile la morte, così aveva in sé un forte  senso di coesione comunitaria: i villaggi realmente costituivano una rete non virtuale ma viva, umana, con splendide amicizie e solidarietà concrete che si formavano fra le differenti famiglie, con i saggi, le loro narrazioni accompagnate da aneddoti di vita vissuta ed esperienza accumulata negli anni.

Oltretutto non esistevano barriere fra età e i vecchi dialogavano con adulti, ragazzi, bambini, indifferentemente; la felicità si configurava come conquista quotidiana, con le piccole soddisfazioni nel mondo di quaggiù non paragonabili alle gioie dell’Aldilà.

Oggi la felicità si trasforma in un dovere: il mezzo principale si chiama edonismo di massa godereccio e tracotante.

Un tempo l’uomo subiva la Natura, oppure la rispettava convivendoci, oggi la vuole dominare, manipolandola con la violenza e l’isterismo dell’ambizione.

La società preindustriale si caratterizzava per il suo patriarcato incentrato su gerarchia ed autorità: il vecchio viveva  in famiglia circondato da bambini e donne di casa, da esse accudito quando non era più in grado di badare a sé stesso.

Invece la nostra Società fatta di vecchi, li emargina, li ghettizza e ne accresce l’umiliazione con il culto di un giovanilismo grottesco.

I motori hanno rotto il rapporto fra uomo e Natura, causando un disequilibrio, con la Tecnologia sempre più in alta quota ad organizzare prepotentemente la vita dell’individuo, incanalandolo in un vortice dove l’uomo è al tempo stesso giocattolo e giocatore.

Lo scrittore ammonisce sulla differenza fra fini e mezzi: ad esempio non è da demonizzare Internet, ma l’abuso che se ne può fare. Nel momento in cui si potenzia al massimo un mezzo, è matematicamente dimostrabile che la persona perde il contatto sia con il reale che con la Finalità.

Nel mondo odierno abbiamo paradossalmente più mezzi e canali tecnologici ed industriali, ma meno competenze e sapere, pochissimi o nulli spunti culturali.

La profondità nell’immaginario collettivo va abbinata alla lentezza, mentre si premia la velocità e la  frenesia con le tanto acclamate tre “e”: efficacia, efficienza ed economicità, a discapito dello spessore decisionale relativo alle scelte, alle scelte importanti.

La Ragione ha talmente creduto in se stessa che si è fatta superstizione, senza raziocinio, perdendo idealità e passione, oltrepassando i suoi limiti che potevano insegnarle qualcosa di più grande.

Si adatta bene a questo saggio il passo di un articolo pubblicato dall’Autore qualche tempo fa, relativo alla crisi valoriale determinato dal Torto della Ragione: “Vorrei essere un talebano, un kamikaze, un affamato del Darfur, un ebreo, un bolscevico, un fascista….perché più dell’orrore mi fa orrore il nulla”.

Ed il nulla è il Trionfo della Ragione sragionato e scriteriato.

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