LA RIVOLTA (DIMENTICATA) DEGLI ITALIANI

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Ci fu un tempo in cui le comuni radici cristiane e culturali facevano sentire gli abitanti del sud come quelli del nord d’Italia appartenenti ad una un’unica grande comunità, al di là dei labili confini regionali pre-unitari. Era un’Italia, quella della seconda metà del XVIII secolo, a suo modo prospera – considerati i tempi e le abitudini sociali – e soprattutto segnata da un cinquantennio di pace. Era l’Italia composta non solo da piccoli regni e principati, ma anche da repubbliche (Genova e Venezia) storiche e blasonate. Quei popoli pacifici e laboriosi erano appena disturbati dalle nuove idee illuministiche che trovavano discreta accoglienza nei salotti e nelle corti principesche, veicolati da una parte della borghesia rampante e bramosa di impossessarsi dei beni della Chiesa e del demanio pubblico. Beni che da secoli servivano soprattutto a sostenere – con la pratica degli usi civici e con contratti di mezzadria ed enfiteusi – le famiglie contadine.

Quando nell’autunno del 1792 le armate rivoluzionarie dalla Francia iniziarono a penetrare in Italia, la pace vi regnava dal 1748 (Pace di Aquisgrana). Ce lo ricorda lo storico Massimo Viglione dell’Università di Cassino nel suo libro “Rivolte dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815” (Città Nuova, Roma, 2009, pagg. 355).

Viglione in questa sua opera ha il merito di presentare un panorama unitario delle tante rivolte degli Italiani contro la presenza giacobina in Italia. A malapena qualcuno ricorderà le gesta di fra Diavolo o del Cardinale Ruffo: si trattò invece di un fenomeno di massa che coinvolse tutte le regioni italiane. La storiografia contemporanea ha generalmente preferito ignorare tale fenomeno, tanto che nei libri scolastici ordinariamente non se ne fa cenno; talora in ambiti più specialistici lo si è sbrigativamente denigrato considerando le insorgenze frutto di ignoranza contadina e di fanatismo clericale. Ma anche gli insulti nella storia possono dire qualcosa: nel nostro caso indicano quella straordinaria vicinanza e comunanza di interessi che dal 1796 al 1815 unì Chiesa e popolo.  In effetti, scrive Viglione, fu proprio il manifesto e spregiudicato anticlericalismo dei Francesi e dei loro alleati giacobini in Italia a suscitare ovunque rivolte armate in difesa della religione cattolica e dei Papi arrestati. Quanto ai giacobini italiani, essi erano quasi tutti appartenenti alla fascia agiata della borghesia, a quella parte di essa che si riteneva “illuminata” e dunqu e ambiva a diventare nuova classe dirigente della Penisola. Ovunque i Francesi giunsero svuotarono le casse degli Stati italiani e spogliarono le chiese, trafugandone le opere d’arte, impossessandosi perfino dei beni degli Ospedali e dei Monti di Pietà; a tutto ciò si aggiungeva l’opprimente giogo fiscale finalizzato a mantenere un esercito costantemente in guerra. La rivolta italiana, che dopo il triennio giacobino del 1796-99 culminò nel 1799 con una sollevazione generale, coinvolse, secondo le stime più recenti, non meno di 300 mi la Italiani, dei quali almeno 100 mi la persero la vita.

Ma ecco un quadro riassuntivo delle insorgenze locali come si ricava dal bel libro di Massimo Viglione: nel Regno di Sardegna e nella Repubblica di Genova; nella Lombardia asburgica e nei ducati emiliani; nella Repubblica di San Marco (con le famose “Pasque veronesi”) e nel Tirolo (con l’epopea di Andreas Hofer); in Toscana (con i “Viva Maria”) e nello Stato pontificio; nel Regno di Napoli (con i “Lazzari” e il cardinale Ruffo).

Dopo aver raccontato nel dettaglio le violenze e le atrocità di una guerra che devastò l’Italia, Viglione conclude: “In realtà gli Italiani di quei giorni ebbero piena coscienza che la Rivoluzione francese era la guerra alla Chiesa e alla civiltà e società europea tradizionale…”. 

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