NO ALL’EUTANASIA, NO ALLA PENA DI MORTE PER FAME E SETE

695

eluana5

Con la rapida diffusione, sul finire degli anni ‘60, di nuove pratiche cliniche relative alle fasi finali della vita, prese piede un movimento scientifico-culturale-politico che si poneva l’obiettivo di ricalibrare l’alleanza terapeutica ponendo l’accento sulla autodeterminazione del paziente. Solo che ben presto tale originaria rivendicazione venne sostituita dalla vera e propria pretesa che il paziente fosse il dominus assoluto di una relazione medica ridotta a un rigido simulacro contrattuale, in cui il medico avrebbe dovuto assumere il ruolo di nient’altro che mero esecutore dei desideri del paziente, qualunque essi fossero. Infine, poi, si arrivò a sostenere che anche eventuali terzi avrebbero potuto esercitare questo dominio, magari assumendo di voler dare seguito ad una volontà precedentemente espressa dalla persona, ormai non più in grado di esprimersi. Dunque, dal diritto che nessuno “mi metta le mani addosso” senza consenso, si arrivò alla pretesa di un vero e proprio “diritto di morire”, e quindi esigibile da parte di terzi (i medici), che avrebbero dovuto collaborare, con un’azione od un’omissione, alla mia scelta di morte. E ciò anche se io non fossi stato più in grado di esprimere le mie volontà.

Il conflitto che si aprì non poteva non finire innanzi ai Tribunali e così fu. L’istanza eutanasica, dopo aver conquistato media e opinione pubblica, giungeva così a bussare alle porte del diritto, del giudice e del legislatore, secondo una strategia chiara e ricorrente. Pian piano, dagli USA alla Gran Bretagna, per arrivare all’Europa (Belgio e Olanda), le sentenze che hanno in qualche modo dato copertura giuridica a forme di eutanasia passiva ed attiva (per non dire di quella pediatrica), hanno spianato la strada all’introduzione di legislazioni eutanasiche.

In seguito ai noti casi Welby ed Englaro, sembra purtroppo giunto il momento anche dell’Italia. Tuttavia vi sono tante ragioni, tutte assolutamente non confessionali, per condurre una buona battaglia in difesa dell’Uomo e del Diritto, senza considerarla persa in partenza, come purtroppo molti tendono a fare.

Pur se nel nostro ordinamento le sentenze non hanno valore di precedente vincolante, le aberranti pronunce che hanno “risolto” i casi citati (la assoluzione del medico che ha ucciso Welby, sia dal processo penale per omicidio del consenziente sia dal procedimento disciplinare, e la sentenza con la quale la Cassazione ha di fatto autorizzato la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione di Eluana sul presupposto, provato per testimoni (!), che ella vent’anni prima avrebbe pensato e detto che vent’anni dopo non avrebbe voluto vivere così), non solo hanno dato copertura legale ad un omicidio e ad una condanna a morte attraverso operazioni ermeneutiche scorrette, ma hanno fatto passare il concetto che tali fattispecie siano sprovviste di disciplina giuridica e che pertanto per le questioni di fine vita sia necessaria una legge.

Essendo quello della protezione della vita umana il fine ultimo dello stato di diritto e la ragione per la quale ci si dota di un sistema di regole organizzato, il nostro ordinamento, sancisce indubitabilmente il principio dell’indisponibilità della vita: nessuno può decidere per la vita di un altro, ma nemmeno è lecito disporre arbitrariamente della propria. Se il suicidio per una serie di ragioni non è perseguito penalmente, lo è l’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.) e l’omicidio del consenziente (art. 479 c.p.), in cui il consenso o la richiesta della vittima, pur essendo rilevante per una riduzione della pena, non scrimina affatto la condotta omicida. Ancora, l’art. 5 c.c. recita “sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente della integrità psico-fisica”, deducendosene che neanche civilisticamente si possa disporre della propria vita fino alla morte. La nostra Costituzione, poi, sancendo il diritto alla salute e collocandolo nell’alveo dei c.d. “diritti sociali”, impone allo stato, alla comunità, di curarmi, di prendersi cura di me, non di abbandonarmi o condurmi direttamente alla morte.

Tuttavia, non esiste un vero e proprio dovere di curarsi, come forse è giusto che sia: posso rifiutare trattamenti terapeutici per i motivi più diversi; purché, però, la mia volontà sia attuale, concreta e informata, non datata, astratta e disinformata. Allo stesso tempo, non posso, però, chiedere a un terzo (il medico) che faccia o si astenga dal fare qualcosa che provochi la mia morte: non esiste, cioè, un “diritto di morire”. Il secondo comma dell’art. 32 Cost., infatti, laddove recita “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, va inteso proprio nel senso che gli volle dare il costituente testimone delle atrocità dei campi di sterminio e degli esperimenti nazisti: che, cioè, se non in casi del tutto eccezionali e garantiti dalla legge, lo Stato, il potere pubblico non può, se io non lo voglio, sottopormi a un trattamento sanitario.

Sebbene certi giudici sembrino dimenticarle, le leggi, pertanto, ci sono. Se la politica (ed anche i vescovi italiani) ritengono però che ci sia bisogno di una legge sul fine vita, occorre che questa legge non lasci dubbi sui seguenti punti: la idratazione e l’alimentazione non sono trattamenti sanitari e lo stato e la comunità sono tenuti, in adempimento ai loro doveri di solidarietà, a garantirli a tutti gli incapaci (ai pazienti in stato vegetativo, così come ai bambini o malati di mente); il medico non può essere obbligato a fare o ad omettere di fare alcunché, perché ha il diritto di esercitare la sua professione in autonomia, in scienza e coscienza, e perché diversamente ne risulterebbe irrimediabilmente compromesso lo stesso rapporto medico-paziente, già oggi troppo contrattualizzato; ma, soprattutto, non è possibile e non è logico che i cittadini cristallizzino in un documento volontà espresse precedentemente (in condizioni di salute e psicologiche differenti), astrattamente (chi di noi sa quando e di cosa si ammalerà?) e senza la necessaria informazione calibrata sulla situazione concreta.

Diversamente si aprirebbero anche in Italia le porte all’eutanasia e all’abbandono dei malati. Malati che lungi dal chiedere di morire, chiedono di essere supportati, accompagnati, con tutto ciò che i media e i legislatori sembrano aver dimenticato: le cure palliative, l’assistenza medico-sanitaria domiciliare, l’ assistenza alle famiglie. Siamo tutti in qualche modo “terminali”.

 

 

Avv. Francesco Cavallo

Dottorando di ricerca in Diritto Costituzionale comparato, Univ. del Salento

Specializzato in Bioetica c/o Univ. Cattolica del Sacro Cuore, Roma

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui