QUELLE PAROLE CHE CAMBIARONO LA STORIA (di Guido Verna)

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papa-21Nella storia umana, ci sono date e avvenimenti che vengono assunti come «punti nodali», rispetto ai quali, cioè, è possibile definire un prima e un dopo. Sono passaggi entro cui si immagina che confluiscano le linee di forza di un «mondo» politico e sociale variamente dispiegate e organizzate sul palcoscenico dell’umana convivenza , per uscirne poi nuovamente ma diversamente dispiegate, a costituire un altro «mon­do» altrimenti fondato e organizzato.

Certo, si tratta di assunzioni di sintesi estrema, rispetto alle quali il maligno o lo sciocco spesso coincidenti obietta che «le cose non sono semplici come le racconti, ma molto più complicate», che «non si può generalizzare», che «la storia non ha mai ritmi istantanei» eccetera eccetera. Tutto vero: ma il giudizio sintetico, l’identificazione delle linee di forza, la definizione degli elementi portanti, è l’unica pratica possibile non solo per raccontare la storia, ma soprattutto per capirla. E allora, una data o un avvenimento a elevata densità simbolica riescono a evocare un passaggio epocale magari perfetta­mente descritto in tanti e grandi tomi con una capacità e­spressiva immediata e facilmente percepibile e memorizza­bi­le.

La caduta del Muro è l’esempio in corso di quanto sto dicen­do. Un semplice muro caduto che rappresenta la fine del più grande totalitarismo della storia ? Sì: perché se anche la rappresentazione sembra sproporzionata, la rappresentatività mi pare invece assolutamente adeguata, non richiedendo per in­tendersi sulla grandezza dell’evento ulteriori e lunghe spie­gazioni: il suo valore simbolico è esauriente.

Quando, però, si è in presenza di un girar pagina della storia, è assolutamente necessario ricordare che, prima del «punto no­da­le», vi sono stati uomini che hanno fatto scelte di campo, che hanno deciso d’impegnare la loro esistenza per operare sulle e contro le linee di forza dominanti, per «piegarle» fino a farle confluire in tale punto, per ri-orientarle e rigenerarle. Direte: tutto ciò è ovvio. Ma aggiungo io l’ovvio, come sempre, è trascurato e dimenticato: nella fattispecie, da un la­to, facendo torto a quegli uomini che hanno lavorato e sof­fer­to in silenzio contro il «mondo» al potere; dall’altro, privando le nuove generazioni dell’esemplarità del loro comporta­men­to.

Una lunga premessa che spero aiuti a cogliere compiutamente il senso profondo e l’emozione provata che mi è parso di cogliere e provare, leggendo una pagina di «piccola» storia «privata» così strettamente e inesorabilmente legata alla «grande» storia , trovata nell’opera Testimone della speran­za: la vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo di Geor­ge Weigel (Mondadori, pp. 405-407).

Eravamo nell’ottobre del 1979, circa un anno dopo la salita di Giovanni Paolo II sul soglio di Pietro. L’impero socialco­mu­nista era in pieno fulgore e l’Ostpolitik, ormai da anni, costituiva l’unica e apparentemente ineluttabile strategia di con­ fronto adottata dal Vaticano verso di esso. L’Ostpolitik gros­solanamente ma spero comprensibilmente si fondava su questo assunto: ritenendo quell’impero invincibile, era meglio trattare che opporsi, con una corrività che minava la capacità di resistenza di tanti cattolici e che diffondeva un relativismo nei principi di cui oggi e chissà per quanto tempo ancora si avvertono le pesanti conseguenze. Quella scelta «politica» si traduceva, fra l’altro, nell’uso di un linguaggio ufficiale me­no che felpato, addirittura solo generico: mai doveva farsi ri­ferimento esplicito ai gestori dei GuLag e alle dottrine che li generavano.

Questo era il panorama «politico-culturale» che faceva da sfondo, quel 2 ottobre 1979, al nuovo Pontefice venuto dal­l’Est, mentre volava sullo Shepherd One, il 727 della TWA da Boston a New York, dove avrebbe tenuto un discorso da­vanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Mentre rileggeva questo discorso, padre Jan Schotte un ex missionario belga che lavorava presso la Segreteria di Stato vaticana e accompagnava il Papa «era preoccupato». Per­ché? Cito testualmente: «Perché il cardinale Agostino Ca­sa­roli aveva escluso quasi tutti i riferimenti che sarebbero po­tu­ti suonare come una critica all’Unione Sovietica e alle altre potenze comuniste, comprese alcune considerazioni sui diritti umani e sulla libertà religiosa. Casaroli pensava infatti che questo tipo di questioni andasse discusso in un dialogo di­ screto fra diplomatici, e non in un pubblico confronto. Padre Schotte, che aveva collaborato alla stesura del discorso, era di tutt’altro parere: la difesa dei diritti umani e la sfida mo­ra­le al totalitarismo costituivano il nocciolo dell’intervento del Papa. Eliminare quei passi significava svuotare il discorso a­gli occhi del mondo. Il fatto era che nella Segreteria di Stato i funzionari di rango inferiore non mettevano di solito in di­scussione il giudizio del consigliere più elevato del Papa, il cardinale segretario di Stato».

Ma quando andò a portare il testo «mutilato» a Giovanni Pa­o­lo Il che era «al lavoro nella sua cabina privata» , padre Schotte ritenne, contrariamente al solito, di dover «mettere in discussione» le mutilazioni, prima spiegando «quali tagli il segretario di Stato suggeriva di apportare», poi esponendo «le ragioni per cui riteneva che accettarli fosse un grave er­ro­re».

Due uomini soli stavano per decidere, sulla base del loro sen­so morale e della loro fede, che era arrivato il momento di im­pegnarsi a «costringere» le linee di forza allora terribilmente vigenti verso il «punto nodale». «Il sacerdote aveva cerchiato le parti che a suo giudizio dovevano essere pronunciate da­vanti all’Assemblea dell’ONU perché indispensabili per tra­smettere il messaggio papale. Giovanni Paolo II esaminò il testo con le sue parentesi e i suoi cerchi, ci pensò su e poi concordò con Schotte: non avrebbe accettato i suggerimenti del cardinale Casaroli e avrebbe invece affrontato con fran­chezza davanti all’Assemblea il problema del fondamento mo­rale della pace, ossia i diritti umani».

Il giorno del discorso, prima di pronunciarlo, il Papa che ve­ni­va dall’Est, portandosi nella memoria il gelo e la lividezza del ferro della cortina, comunicò a suo modo e per chi poteva e doveva capire che l’atteggiamento verso «quel mondo», era finalmente e improvvisamente cambiato. «Di norma, quando il Papa saliva sul podio per tenere un discorso, a porgergli i fogli era il segretario personale, monsignor Stanislaw Dzi­wisz, che godeva di questo piccolo privilegio. Quel giorno, mentre svolgevano varie formalità nella sede dell’ONU, Dzi­wisz prese da parte Schotte e gli disse: “Il Santo Padre vuole che sia tu a porgergli le carte”. Schotte rimase sbalordito. E altrettanto stupiti furono i vari accompagnatori del Pontefice quando, come gli era stato ordinato, il sacerdote belga com­parve sul podio per consegnare all’oratore il testo dell’in­ter­vento. Il Papa non si era limitato ad accogliere il consiglio di Jan Schotte, ma con quel semplice gesto di gratitudine aveva mandato un segnale preciso alle antenne sempre tese della curia romana: il Pontefice gradiva consigli franchi e aperti e non voleva censure sui temi dei diritti umani e della libertà religiosa».

Quando si festeggia l’anniversario dell’emblematica caduta del Muro, sarà bene ricordarsi, allora, di quell’aereo in volo, sul quale due uomini anche se uno di loro straordinariamente sui generis presero in mano il libro della storia e decisero, fidando nel solo aiuto di Dio, d’impegnarsi per voltare pagina. «Quella» pagina la più terribile della storia dell’umanità che solo dieci anni dopo si sarebbe definitivamente appog­gia­ta sulla precedente, fra la polvere e sotto le macerie del Muro. Come in ogni «punto nodale», vi era un prima e vi è un dopo: ma è sempre il cuore e la fede degli uomini a determinare il quando e il come.

8 maggio 2002

 

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