Storia delle politiche familiari in Italia (Intervista allo storico e pubblicista dott. Giuseppe Brienza)

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giuseppebrienzaPer comprendere come in un Paese come l’Italia in cui esiste un diffuso consenso sulla centralità della famiglia si continuino a perdere occasioni per scelte concrete e coraggiose a favore di questa “cellula fondamentale”, abbiamo rivolto alcune domande al dott. Giuseppe Brienza, giornalista e corrispondente romano dell’ISIIN, autore di numerosi libri e articoli sulle tematiche familiari e sociali.

 

Quando nascono le politiche sociali per la famiglia ?

Hanno una storia relativamente recente che può essere fatta iniziare, limitatamente ad alcuni Paesi europei, soltanto attorno agli anni ‘30.

 

In Italia, a quando risale l’intervento dello Stato in materia familiare ?

Fino alla prima metà dell’Ottocento, in quello che può essere definito l’“antico regime della famiglia” in Italia, rare appaiono le incrinature effettive nella plurisecolare stratificazione di norme, soprattutto consuetudinarie, che formavano il diritto di famiglia italiano, derivante da quello antico romano. Nell’ultimo secolo e mezzo abbiamo invece assistito al progressivo superamento di tale eredità e ad una sorta di “pendolarismo” nei rapporti fra famiglia e Stato. Questi ultimi, infatti, hanno conosciuto alternativamente fasi di “privatizzazione” della famiglia  (cioè non interferenza dei poteri pubblici, ma anche di assenza quindi di politiche di promozione) e “pubblicizzazione” (cioè considerazione della famiglia quale soggetto pubblico che, pertanto, vede disciplinata la sua vita interna dall’ordinamento giuridico-statale e, teoricamente, difesa da esso la sua unità ed integrità). Il primo intervento storicamente si ha con il codice civile del 1865 (detto “codice Pisanelli”, dal nome del Ministro guardasigilli (1862-64) che ne predispose il testo, Giuseppe Pisanelli (1812-1879)], con il quale si realizza in Italia per la prima volta l’unità della legislazione in materia matrimoniale e familiare. Coerentemente con le idee liberali e laiciste del tempo, la Chiesa veniva estromessa dallo specifico settore, ponendo il principio del matrimonio civile come obbligatorio. In pari tempo si limitava l’intervento dello Stato all’interno della famiglia, nel quadro di una concezione di derivazione illuministica, per cui la liberazione dell’individuo passava anche attraverso la sua emancipazione dal gruppo familiare. Si sviluppa quindi un diritto di famiglia e sulla famiglia, piuttosto che un diritto della famiglia.

 

La prima inversione di tendenza nei rapporti fra Stato e comunità familiare quando si ha?

Una prima inversione di tendenza si ha durante il periodo fascista, allorché si viene a forgiare un diritto e ad elaborare una teoria politica della famiglia caratterizzata dalla concezione dei suoi interessi, così come di quelli degli individui che la compongono, integrati e sottoposti ai “superiori” interessi della nazione. La disciplina giuridica della famiglia conosce così la massima attrazione nella sfera del diritto pubblico (con il Concordato del 1929, ad es., il matrimonio concordatario divenne la regola per la popolazione italiana, tanto per i fedeli quanto per i “non praticanti”). In termini politici l’influenza del fascismo sulla famiglia trova il suo culmine con il nuovo codice civile del 1942, il “codice Rocco” [dal nome del giurista che più di ogni altro influenzò la sua redazione, Alfredo Rocco (1875-1935)], il quale restituisce giuridicamente al matrimonio tutta la sua importanza di istituto sociale e politico e restaura in tutta la sua valenza il principio d’ascendenza romanistica della patria potestas.

 

Cosa si può dire delle politiche familiari del fascismo?

Si deve citare l’istituzione della “Cassa di maternità obbligatoria”, che avrebbe dovuto provvedere a garantire il sussidio per le lavoratrici-madri tutelate dalla legge (R .d. n. 2157/1923), dell’imposta di successione nel nucleo familiare (R. d. l. n. 1802/1923) e, nel 1925, dell’“Opera Nazionale Maternità e Infanzia”.  Tra il 1929 e il 1934 fu poi riordinata tutta la materia della tutela del lavoro. Fra le novità previste: l’assicurazione per la maternità a carico del datore di lavoro obbligatoria per tutte le donne dai 15 ai 50 anni, il periodo di astensione obbligatoria esteso dall’ultimo mese di gravidanza ad un mese e mezzo dopo il parto, l’obbligo per i datori di lavoro di allestire “camere di allattamento” o di concedere alle donne la possibilità di allontanarsi dal luogo di lavoro per allattare, l’istituzione nel 1934 della “Cassa nazionale per gli assegni familiari”, che provvedeva a corrispondere un extra salariale agli operai bisognosi, con famiglia a carico e, sul terreno fiscale ed amministrativo, la previsione di esenzioni d’imposta e privilegi di carriera per gli ammogliati (con parallela “tassa sui celibi” del 1926) e per i padri di famiglie numerose (l. n. 1024/1929), l’istituzione dell’“aggiunta di famiglia”, i sistemi di congedi pagati legati alle vicende tipiche del nucleo familiare e, con R. d. l. n. 1492/1937, i “prestiti di nuzialità” ed i “premi di natalità”.

 

Venendo alla Repubblica Italiana?

A partire dall’avvento dell’ordinamento repubblicano, il processo si inverte di nuovo, con una progressiva accentuazione della “privatizzazione” di matrimonio e famiglia ad opera sia del legislatore sia, soprattutto, della giurisprudenza e della dottrina giuridica. A dire il vero tale esito non deriva dal testo costituzionale, che rifiuta la concezione secondo cui la struttura della famiglia sarebbe socio-culturale, e quindi mutevole nel tempo (l’art. 29 Cost. riconosce la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio“). Le classi dirigenti hanno però affermato  culture politiche, s e non contrapposte, quantomeno estranee o poco sensibili ai principi tradizionali e costituzionali sulla famiglia, politiche influenzate da ideologie di stampo liberal-individualista e marxista. Se si confronta il diritto di famiglia introdotto a seguito delle modifiche legislative degli anni 1970 con le precedenti codificazioni, si constata il “gran balzo in avanti” della “privatizzazione dei rapporti”, in quanto valori come il rispetto della fedeltà coniugale e la salvaguardia della vita nascente, ritenuti precedentemente degni di pubblica tutela e come tali giuridicamente protetti contro possibili lesioni, sono stati sostanzialmente rimessi all’arbitrio degli individui o, nel caso dell’aborto, alla sola donna.

 

Cosa ha comportato questo in termini di politiche familiari?

Ha comportato che durante tutta la “prima Repubblica” interventi presentati come d’interesse familiare hanno risposto più alle esigenze di una politica per individui facenti parte del gruppo familiare, specie nei casi “patologici” e di crisi, per motivi relazionali (si pensi alle problematiche del rapporto coniugale, cui avrebbero dovuto pensare i consultori familiari pubblici), o per condizioni personali (si pensi agli handicappati, ai malati, agli anziani), che non alle logiche di una politica della famiglia, volta cioè a promuovere essa come tale e, pertanto, nel fisiologico adempimento delle sue funzioni. La famiglia, per questo, anche a motivo dell’influenza sindacale che si è avuta nelle politiche sociali, è sempre stata concepita come fonte di utilità personali e luogo di realizzazione di soli diritti individuali. In alcuni casi interventi diretti a rimuovere delle situazioni di bisogno o di emarginazione individuale hanno prodotto effetti contrari e negativi per la famiglia come tale. Così ad esempio quelli a favore delle “ragazze madri” (cioè nubili), i quali hanno ingiustamente penalizzato la maternità nel matrimonio (si pensi a certi criteri per la formazione delle graduatorie per l’accesso a determinati servizi sociali o educativi).

 

Quindi si è applicata per un cinquantennio solo una “sussidiarietà negativa” nell’ambito delle politiche familiari?

Esattamente, interventi a favore della famiglia sono stati spesso concepiti come forme di sua sostituzione ordinaria da parte dell’istituzione pubblica nell’adempimento di definite funzioni e non, invece, come provvedimenti diretti a precostituire le condizioni (giuridiche, culturali, economiche, fiscali, ecc.) in forza delle quali la famiglia sia in grado di provvedere autonomamente al perseguimento delle sue proprie finalità (realizzando, cioè, quella che chiamo“sussidiarietà familiare positiva”). Questo è derivato anche dal fatto che nella Costituzione il corretto principio di sussidiarietà è stato in maniera poco lungimirante “sotteso” e non esplicitamente affermato.

 

In cosa sono consistite le politiche economiche familiari durante la “prima Repubblica”?

Nei due trasferimenti monetari che oggi in Italia sono rivolti alle famiglie con figli: l’assegno al nucleo familiare (prima del 1988 denominato solo “assegno familiare”), per le famiglie di lavoratori dipendenti (con almeno un figlio minore) a reddito modesto, attualmente disciplinato dalla legge n. 153/88, e l’assegno per il terzo figlio per i nuclei a basso reddito e con almeno tre figli minori, concesso dai Comuni ma erogato dall’INPS, i ntrodotto dalla legge n. 448/98, entrambi inadeguati.

 

Si può parlare oggi di una “nuova fase” per politiche familiari?

A partire dagli anni 1990, a motivo dei modelli statalistici di Welfare, ed anche grazie al rilancio dell’associazionismo (il Forum delle associazioni familiari nasce ad esempio nel 1992), in vari interventi del legislatore sembra indubbiamente ritornare un’attenzione “pubblicistica” per la famiglia, pur rimanendo delle ambiguità. Si deve soprattutto notare che la riforma in senso “federalista” dello Stato, in particolare il conferimento di maggiori competenze a Regioni e Comuni, prefigurato dalla prima legge Bassanini (n. 59 del 1997) e portato ad un primo, parziale, compimento con la legge costituzionale di riforma del Titolo V della Costituzione, ha aperto nuove prospettive ad una legislazione locale di promozione e sostegno della famiglia.

 

Quindi nella nuova fase delle politiche familiari protagonista non è tanto lo Stato ma le autonomie locali?

Sì, il nuovo protagonismo degli enti locali in questa materia si è già reso evidente ormai da quasi un decennio, attraverso interventi di singoli legislatori regionali e di Comuni che hanno introdotto forme di aiuto in ambiti di sicuro interesse della famiglia, quali l’istruzione, l’assistenza sociale, il sostegno alla maternità ecc. (considerando come destinataria solo la famiglia fondata sul matrimonio penso soprattutto alle legislazioni della Lombardia e del Lazio). Al di là delle riforme in senso “federalista”, i rappresentanti politici locali, in ciò facendo, stanno dimostrando di saper mettere pienamente a frutto i vantaggi derivanti dai nuovi sistemi elettorali in termini di maggiore stabilità degli organi di governo.

 

Quale provvedimenti dello Stato centrale si possono invece della fase più recente?

Il bonus di mille euro una tantum per la nascita del secondo figlio che, in vigore nel 2004, poi abbandonato nella Finanziaria 2005, è riapparso nella Finanziaria 2006 come “mini-bonus” di 160 euro per tutti i nati dal 2003 al 2005. Si tratta, certamente, di un contributo modesto e temporaneo destinato solo a poche famiglie a basso reddito, però esso può considerarsi positivamente sia dal punto di vista culturale sia nel senso di offrire un sostegno agli alti costi di fare un figlio in più che, come dicono le statistiche, rappresenta l’aspirazione di molte donne italiane, madri di figli unici.

 

Quale ritiene debbano essere gli ambiti privilegiati della politica familiare?

In una battuta, penso debbano essere indirizzati alle politiche “indirette”, quelle che cioè consentono alla famiglia di saper svolgere autonomamente quello che è il suo ruolo peculiare, e cioè di “cellula della società”. Mi riferisco, in particolare, alle politiche del lavoro (prima di tutto valorizzando, anche economicamente, il “lavoro familiare”, cioè quello casalingo), dell’istruzione e dell’urbanistica, tutte da ripensare “a misura di famiglia” e non d’individuo.

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