1861: MA L’ITALIA C’ERA GIA’ PRIMA

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Secondo la “vulgata” ufficial e il Risorgimento costituirebbe il radioso riscatto della civiltà italica dopo secoli di decadenza dovuti alla presenza sul territorio italiano della sede universale della Chiesa cattolica.

Ebbene, se è vero che l’unificazione politica è ormai un fatto acclarato e oggi sicuramente da difendere, il Risorgimento quale espressione culturale che ha accompagnato quel particolare processo di unificazione, rappresenta invece oggettivamente più una cesura che un segno di continuità nella millenaria storia degli italiani, più un momento di divisione che di unione, più un aspetto problematico che un valore condiviso.

Francesco Pappalardo, storico e saggista, lo spiega in dettaglio nei primi capitoli di un suo agile volumetto: “L’Unità d’Italia e il Risorgimento” (D’Ettoris Editori, 2010, Crotone, pagg. 76).

Mentre lo Stato italiano è sorto nel 1861, scrive Pappalardo, «la nazione Italia esiste da quasi un millennio come unità culturale, pur nella diversità delle sue componenti, e si è formata allinterno della Cristianità occidentale, nei secoli dellAlto Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un complesso mosaico di lingue e di stirpi» (pag. 12).

Tuttavia, il passaggio dal XVIII al XIX secolo segna — anche per l’affermazione culturale di movimenti come il romanticismo — un momento di non ritorno per molti costituendi (o appena sorti) Stati europei. In questo periodo, infatti, la dimensione nazionale — fino ad allora considerata come un semplice aspetto, fra i tanti, della vita associata — diventa un valore supremo, quasi trascendente, a tal punto che «[…] sostituisce la legittimazione religiosa del potere e giustifica qualsiasi decisione politica» (p. 25). In quest’ambito un ruolo fondamentale in Italia viene svolto da Giuseppe Mazzini (1805-1872) che, fondando nel 1831 la società segreta Giovine Italia, è tra i primi a prefigurare l’unificazione della Penisola su basi utopiche e con linguaggi totalmente estranei al corpo sociale: «…l’unità che egli auspica è quella di una società completamente nuova, da costruire sulla demolizione degli ordinamenti preesistenti e degli stessi valori, spirituali e storici, comuni alle popolazioni italiane… La nuova Italia s’identifica dunque con un’identità astratta e gli italiani sono “da fare” mediante un radicale rinnovamento della società, un’opera di pedagogia collettiva» (p. 26).

Se questo è vero, la famosa citazione del marchese Massimo d’Azegliofatta l’Italia, bisogna fare gli italiani -, non sorprende più di tanto e appare finalmente in tutto il suo vero, drammatico, significato. L’Italia a cui si riferiva d’Azeglio, evidentemente, non era quindi l’Italia reale, quella dei mille campanili e da secoli esistente, ma per l’appunto la nuova idea — disegnata a tavolino e integralmente sostitutiva della realtà — portata avanti dalle élite illuminate e non di rado legate alla massoneria.

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