ARMENIAN SURVIVORS (Il Corriere del Sud, n°2, 15 marzo 2008, pag.3)

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arm-genocide-2.jpgSurvivors” (Angelo Guerini E Associati, 2007, Milano, pagg. 244, euro 19,50) è il titolo del libro dei coniugi statunitensi Donald E. Miller e Lorna Touryan Miller, di recente pubblicato anche nella sua traduzione italiana.

Chi sono i sopravvissuti (survivors)?

Sono i pochissimi (soprattutto bambini) che riuscirono a salvarsi dal primo genocidio del XX secolo: quello – per gran parte ancora sconosciuto al grande pubblico – del popolo armeno.

Donald E. Miller insegna Sociologia delle religioni presso l’Università della California. Con la moglie Lorna è coautore di diversi studi sul genocidio armeno, fondati sulle fonti diplomatiche del tempo ma specialmente sul recupero delle testimonianze orali dei sopravvissuti. In appendice al volume viene infatti riportato l’elenco, disposto in ordine alfabetico, degli ex bambini intervistati dai due coniugi verso la fine degli anni ’70: nati a cavallo fra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo, al momento delle interviste queste persone erano oramai ultrasettantenni, ma i loro ricordi, pur nella molteplicità delle esperienze e dei diversi punti di vista, risultavano sostanzialmente univoci. Gli scampati al genocidio provenivano per lo più dagli orfanotrofi e poi, attraverso varie circostanze, spesso rocambolesche, erano riusciti a seguire la scia dell’ immigrazione armena in Occidente. turkey-armenia.gif

Nel volume dei coniugi Miller le testimonianze orali sono messe a confronto con la documentazione d’archivio relativa alle fonti diplomatiche del tempo, riguardante rapporti e resoconti di consoli, di incaricati di affari, ma anche di missionari occidentali, che si trovarono a vedere con i loro occhi alcune fasi della deportazione armena.

Nel 1915 il governo turco, entrato in guerra al fianco degli Imperi centrali contro Russia, Francia e Gran Bretagna, emise un decreto con il quale ordinava la deportazione in massa della numerosa minoranza armena (il millet armeno), di religione cristiana e dunque considerata potenzialmente filo-russa. Solo chi si convertiva velocemente all’Islam aveva buone possibilità di salvarsi.

Il tragitto per lo più si snodava dai villaggi della Turchia orientale, sede dell’Armenia storica (le regioni anatoliche intorno al lago di Van), fino a raggiungere alcune città siriane o dell’attuale Iraq: Aleppo, Der-Zor, Mosul, allora parti integranti del vasto impero ottomano.

Qui i superstiti, sradicati dai loro affetti e dalla loro terra, oggetto di ogni tipo di violenza e di sopraffazione, arrivavano seminudi e scheletrici, ormai prossimi alla morte, dopo aver abbandonato per strada scie di cadaveri.

Sono le scene che il pubblico italiano ha timidamente imparato a conoscere grazie soprattutto all’opera della giornalista e scrittrice Antonia Arslan, che è anche la curatrice del volume in questione. Il suo romanzo La masseria delle allodole, campione di vendite e tradotto nel 2007 nel bel film dei fratelli Taviani, almeno in parte ha consentito di rompere la congiura del silenzio sul dramma terribile vissuto dagli Armeni di Turchia, sterminati a più riprese, prima negli anni 1894-96 dal governo islamico del Sultano e poi nel 1915 da quello più laicista dei “Giovani Turchi”.

L’assalto ai villaggi, gli arresti indiscriminati degli uomini adulti, le chiese incendiate con i fedeli chiusi dentro, tutto questo in molti luoghi fu il preludio alla grande deportazione che eliminò in pochi mesi, fra la primavera e l’estate del 1915, quasi un milione e mezzo di Armeni. Ma la marcia forzata verso la Siria e la Mesopotamia resta qualcosa di unico e terribile: “La morte per fame – come per disidratazione – era piuttosto comune. Ai turchi locali era vietato dare cibo agli armeni in transito e questi, dopo essere stati depredati, avevano perso non solo le scorte che si erano portati appresso, ma anche i mezzi per comprarsene altre. Di conseguenza, erano costretti a nutrirsi dell’erba che cresceva lungo la strada. Un sopravvissuto disse che vivevano come pecore al pascolo” (pag.111).

A scortare le colonne di deportati, composte quasi esclusivamente da vecchi, donne e bambini – gli uomini infatti erano stati fucilati nei villaggi o erano morti al fronte, servendo fedelmente, nonostante tutto, nell’esercito turco – vi erano solo pochi gendarmi: “In un’analisi retrospettiva, molti sopravvissuti si domandavano a gran voce come era stato possibile che un pugno di gendarmi avesse potuto scortare centinaia e migliaia di armeni verso la morte, senza alcuna ribellione…Alcuni sopravvissuti hanno dato delle risposte, per quanto incerte, a questi interrogativi. Ad esempio, una delle persone interpellate, rifletteva: “Dove avremmo potuto andare? A patire la fame su quelle montagne ? E allora continuavamo a camminare… Inoltre, alcuni sopravvissuti continuavano a credere che le deportazioni sarebbero state temporanee.” (pag.112).

Secondo altre testimonianze, il timore di nuocere ai pochi gendarmi nasceva dal fatto che, eliminatone alcuni, altri ne sarebbero arrivati, con la precisa intenzione di vendicarsi anzitutto sulle donne. Ed infatti i resoconti sui casi di violenza sessuale abbondano in tutte le interviste, oltre che nei dispacci dei diplomatici. Una delle testimonianze più significative “…fu quella relativa a una ragazzina che venne violentata da uno dei capi turchi della città in cui transitava la carovana. I gendarmi avevano fatto incursione nel convoglio e avevano notato una ragazzina di dodici anni particolarmente graziosa. La strapparono alla madre, dicendo alla donna in lacrime che gliela avrebbero riportata. E infatti, la bambina fu riportata indietro, ma era stata orribilmente violata e di lì a poco morì…” (pag.128).

Comunque, sia che i gendarmi eseguissero direttamente gli ordini governativi che intimavano di sterminare gli Armeni, sia che commettessero atrocità di propria iniziativa, l’esito fu la morte di centinaia di migliaia di deportati. Quando non intervenivano in prima persona, lasciavano fare il lavoro sporco alle bande di montanari curdi o alla feccia di ex detenuti (i famigerati chété) appositamente scarcerati dalle autorità turche per assalire gli Armeni durante il loro lungo cammino di morte: “I turchi e i curdi locali si accostavano ai deportati e portavano via tutti quelli che volevano. A volte le ragazze venivano rapite di notte; c’erano casi in cui le donne e i bambini venivano trattati come animali messi all’asta e questo fatto ci fu più volte riferito nelle interviste” (pag.126).

Così furono molte le donne che finirono negli harem di qualche notabile turco; ma altre preferirono suicidarsi. Concordi testimonianze narrano di suicidi di massa nel fiume Eufrate: “Le ragazze si gettavano spesso a centinaia in un giorno solo, secondo quanto riferito dai sopravvissuti … Per quanto ci è dato di ricostruire, queste ragazze, tenendosi sottobraccio o per mano, si lanciavano giù da un ponte o da un dirupo dentro le acque impetuose dell’Eufrate o di un altro fiume. Le motivazioni si devono ricercare tra i seguenti fattori: le ragazze erano fisicamente ed emotivamente stremate; avevano assistito a violenze tremende durante la deportazione, compresi rapimenti e stupri; molte avevano perso membri della propria famiglia; i loro mezzi di sostentamento erano ridotti al minimo e forse, cosa più importante, avevano perso ogni speranza di vivere.” (pag.129).

Quanto ai bambini rapiti, chi non smarrì la propria identità armena e cristiana crescendo in nuove famiglie musulmane, trovò scampo – dopo aver a lungo vagabondato – in qualche orfanotrofio istituito al termine della prima guerra mondiale dai missionari occidentali. Ma spesso trascorsero mesi, e qualche volta anni, quasi completamente soli, senza i genitori o altri adulti di riferimento che si occupassero di loro: “I bambini sopravvissuti avevano imparato a intenerire i turchi che incontravano e a sfruttare le occasioni a proprio vantaggio.” (pag. 140).

Quella degli orfanatrofi fu comunque una parentesi di relativa serenità destinata a durare appena 4 anni, dal 1918 al 1922. In questo anno infatti il nuovo leader turco, Kemal Ataturk, risollevò la bandiera del panturchismo, momentaneamente ammainata a causa della sconfitta subita nella prima guerra mondiale; così anche i superstiti del genocidio, compresi i bambini degli orfanatrofi, dovettero abbandonare definitivamente quella che per secoli era stata la terra dei loro avi. La presenza armena in Anatolia di fatto era conclusa (fra l’altro in quel medesimo anno, a Smirne, sulla costa mediterranea, si consumava con l’incendio della città l’eccidio dei greco-ortodossi e degli armeni ivi residenti): Alla fine del 1922 solo un ristretto numero di armeni era rimasto in Turchia … Gli armeni sopravvissuti dovettero affrontare il problema di trovare un posto sicuro dove sistemarsi.” (pag. 169). Per la maggior parte di loro, questo posto sicuro furono il Libano o gli Stati Uniti.

Alla fine dei conti non di una deportazione si trattò, ma di un massacro senza precedenti destinato a restare sostanzialmente impunito. Impunità in cui Adolf Hitler, alcuni anni più tardi, avrebbe consapevolmente confidato …

Il paradosso è che ad oltre novanta anni di distanza da quella tragedia, le autorità turche, che pure oggi ambiscono ad entrare nel contesto dei popoli europei, neghino con vigore il genocidio, nonostante l’abbondanza e l’evidenza delle fonti storiografiche. Ciò ha accresciuto – ed accresce – le difficoltà degli Armeni a dimenticare e a cicatrizzare le devastanti ferite della memoria.

Un libro dunque davvero bello da leggere e soprattutto da diffondere, per meglio comprendere non solo il dramma degli Armeni ma le ragioni dello scontro di civiltà – si voglia o no! – in atto ai nostri giorni.

Roberto Cavallo

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