DOMENICO QUIRICO: A YABROUD (SIRIA), OSTAGGIO SOTTO LE BOMBE, HO CAPITO CHE LA RIVOLUZIONE ERA FINITA

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Domenico Quirico, giornalista e inviato speciale de “La Stampa” in Siria, per 152 interminabili giorni è stato ostaggio di gruppi jihadisti

Da “La Stampa” del 15 marzo 2014 (pag. 13) leggiamo e riportiamo il reportage di Domenico Quirico: “È nel primo incontro con Yabroud che ho sentito l’improvviso impero di un destino, il mio personale e quello di una rivoluzione intera. Una notte appena dopo esser entrato in Siria attraverso la frontiera libanese sguarnita di soldati, su una tortuosa petrosa stradicciola vagabonda presidiata da frutteti che radono a destra e sinistra i montuosi fianchi deserti. Dai meli in fiore, era aprile, i petali fluttuavano pigramente nell’aria. Ho capito a Yabroud come sia così difficile separare il Bene dal Male.Non sapevo ancora che stavo per entrare in una vita diversa, così come per sbaglio si sale in un treno diverso. Ho iniziato a capire quando ho incontrato il prete. Yabroud non si preannuncia, Yabroud ti afferra quando si comincia a rendersi conto della sua presenza, è già là con le sue casupole i suoi minareti le vie tortuose e ingombre di immondizia. La chiesa è splendida: vi hanno pregato i legionari di Roma, il segno di Caligola Cesare è ancora ben impresso nelle pietre, e poi i cristiani, perennemente eroici perché perennemente assediati, dai pagani e poi sperduti in terra di islam. Sul piano del cortile, sulle fronti, sulle arcate un crescente di lume di sole veniva più e più colorando le pietre austere come una ascensione interna di vita di senso di parola. Il prete era un uomo anziano che aveva studiato teologia in Belgio. Nell’accogliermi una evidente mestizia, un allarme. Mi accompagnava a vedere la chiesa ostentatamente, con maniere da visita turistica, rivolte ai miliziani che facevano da corteo. Sfilavan via, sequenza surreale, dotte spiegazioni sulle trasformazioni della navata nei secoli, e sulle icone preziose salvate da mille assedi saccheggi violenze. Poi mi portò nella piccola sacrestia, troppo piccola per ospitare anche l’ingombrante codazzo dei rivoluzionari. È allora che il prete racconta. Che a Yabroud, da quando è scoppiata la rivolta comandano gruppi di finti ribelli, di banditi travestiti che vivono a spese della popolazione con esazioni, sequestri, violenze. Vittime, tra gli altri, i cristiani: «Dobbiamo pagare perché ci lascino pregare e vivere in pace, e ogni volta la somma è maggiore. Ma eravamo cinquemila cristiani qui, tre anni fa. Oggi ne è rimasta forse nemmeno la metà, gli altri fuggiti nel vicino Libano o a Damasco. Sia prudente perché la rivoluzione non esiste più, è diventato brigantaggio». Non l’ho ascoltato. Sono tornato a Yabroud due mesi dopo: ostaggio. La chiesa era ancora candida nella luce;ma non ho più rivisto il prete,non so se è vivo. Questa volta non ero libero di scegliere dove andare, ero nelle mani proprio di un gruppo di ribelli-banditi. All’ingresso della città ho visto i miei primi rapitori vendermi a un altro gruppo per un grosso pacco di dollari. Ho sperato, sognato che sarei uscito di lì attraverso quella pista che si inerpicava sulla montagna; ci sono passato davanti due volte:sempre invano. Tutto era cambiato. Solo la luce era la stessa.Dal cielo incredibilmente vicino ai monti che spalleggiavano e chiudevano la valle pioveva luce su tutte le cose, in limpidezza tale da sembrar fuori di natura, quasi estinta. Questa volta ho attraversato le strade in fretta, su un pickup, il viso avvolto in una kefiah per ingannare i passanti, figure fiere e remote che furtivamente gettavano su di me sguardi di odio. La città l’ho soltanto ascoltata, dalla stanze in cui ero tenuto prigioniero: il rumore della folla, dei venditori, le grida i richiami del muezzin, la moschea era a due passi dalla mia prigione nella parte alta della città che si arrampica verso una semidistrutta fortezza turca. E poi le esplosioni. Gli aerei del regime saggiavano qua e là come se palpeggiassero la robustezza degli edifici. È a Yabroud che ho conosciuto i carcerieri di altri tre mesi di vita rubata. Furbi lesti febbrili, metà rivoluzionari e metà briganti. Immersi nella guerra civile fino al collo come in una melma, la loro vita è un attimo.Questa è la loro forma di eternità. Lerciume denaro bugie…la rivoluzione che avevo amato nelle vie di Aleppo la ribelle, a Yabroud è diventata un panno sporco da gettar via. Sono stato prigioniero in piccole stanze: strani fili di suono ti avviluppano, improvvisi scoppi di luce attraverso la finestra chiusa da una grata, lampi di fughe impossibili (ah! riuscire ad arrivare alla chiesa, il prete mi aiuterebbe…), felici invasioni di vertigine. Quando un attimo si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte come la vita che non sai se hai più; e dal mistero balzano improvvise illuminate e precise le cose essenziali, una volta e per sempre. Potrei dimenticare Yabroud, ma non posso, non voglio. Gli Hezbollah, di cui hanno una folle paura, hanno cacciato i miei carcerieri dalla città. Immagino: che guardino la mestizia delle rovine, delle ceneri, del dolore. Sanno che devono morire. La loro vita è chiusa, è quasi piena, la clessidra è colma fin quasi all’orlo. E la morte non ha che da aggiungere pochi, pochissimi granelli di sabbia.”.

 

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