LA MAFIA CINESE SI ESTENDE IN ITALIA (Corriere del Giorno, 2 settembre 2008, pag. 5)

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Ci sono le bande di adolescenti con i capelli colorati e le cinture rosse che si contendono i quartieri a colpi di coltello e di machete. Ci sono reti di trafficanti di uomini che, fra Cina e Italia, lucrano sui viaggi dei clandestini. C’è poi la banca fantasma, il mercato parallelo dei farmaci illegali, la clinica abusiva, la casa di appuntamenti e l’import-export fuori da ogni regola. Questo e tanto altro è descritto nell’accurato reportage dei giornalisti Giampiero Rossi e Simone Spina su un argomento ancora poco conosciuto in Italia: “I boss di Chinatown” (Melampo Editore, Milano, 2008, pagg. 202, euro 14,00).

Questo libro, che è il frutto della prima inchiesta condotta in modo sistematico sulla mafia cinese in Italia, ci accompagna nei meandri delle Chinatown cresciute a dismisura a Roma (quartiere Esquilino) e a Milano (la zona di via Paolo Sarpi), ma anche in altre città.

Le attività illegali della criminalità cinese si distribuiscono su tre livelli.

Storicamente i boss della mafia asiatica hanno iniziato con lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, che è dunque il primo livello di illegalità. Chi arriva in Italia non solo deve trovare i soldi per pagare il viaggio, ma ha bisogno anche di un alloggio e di uno straccio di lavoro: si rivolge perciò ad un laoban, e cioè ad un padrone già ben inserito nel tessuto di Chinatown. I cinesi arrivano in aereo ma anche via terra. Secondo l’Istat sono circa 128.000, ma per la Caritas il vero numero raggiunge le 200.000 unità. Probabilmente sono molti di più. Comunque un bel salto in avanti rispetto alle poche migliaia degli anni ’80. Fu proprio allora, dopo la morte di Mao avvenuta nel 1976, che per i cinesi iniziò a concretizzarsi una certa libertà di movimento, con la possibilità di partire per l’estero. Il nuovo leader Deng Xiaoping inaugurò infatti una lenta modernizzazione che mischiava dogmi marxisti a certi aspetti – sicuramente i più deleteri – del capitalismo. Iniziava così un esodo dalle proporzioni gigantesche, e le capitali d’Europa si riempirono progressivamente di gente in fuga dalla Cina maoista e desiderosa di rifarsi una vita in Occidente. Ma il nuovo corso del partito comunista cinese non era comunque privo di tornaconto: oggi i cinesi all’estero, con le loro rimesse, fanno molto bene alle casse della madrepatria! E’ così che tra false regolarizzazioni e ingressi del tutto illegali, organizzazioni ben strutturate con complici nelle maggiori capitali internazionali gestiscono un business milionario basato sul commercio di uomini e donne.

Per l’immigrato indebitato fino al collo inizia invece una nuova vita fatta di clandestinità e, spesso, di sfruttamento. La paga oraria di un operaio cinese è di soli 45 centesimi l’ora contro i 13 euro di un lavoratore italiano; e di solito tutti lavorano dalle 11 alle 14 ore al giorno, compresi i festivi.

A volte gruppi di immigrati vengono “rubati” o scambiati fra vari organizzazioni criminali, che li rimettono in libertà – una volta giunti a destinazione – soltanto se i familiari, in Cina o in Europa, pagano cospicui riscatti. Fino a quando ciò non avviene, restano segregati in minuscoli appartamenti adibiti, di fatto, a prigioni. Non di rado vengono percossi e violentati e, ridotti allo stremo, implorano per telefono ai propri congiunti di pagare al più presto le somme richieste dagli estorsori. Le forze dell’ordine europee ed italiane stentano a ricostruire le linee di questo traffico, non fosse altro per le difficoltà legate alla lingua (e ai tanti dialetti!) e al riconoscimento di individui che presentano tratti somatici facilmente confondibili. Nelle comunità degli immigrati cinesi vige la legge dell’omertà, con rare eccezioni che solo recentemente hanno consentito agli inquirenti di incriminare ed arrestare alcuni pericolosi boss. Boss è il termine che più si addice a questi capi-zona e capi-mandamento che in puro stile mafioso (le triadi, la mafia cinese!) si dedicano non solo ai traffici di clandestini ma pure alle estorsioni. E questo è il secondo livello delle loro attività criminali. Di fatto non c’è esercizio commerciale cinese, delle 26.431 imprese cinesi censite in Italia alla fine del 2006, che non sia taglieggiato da connazionali che pretendono il pagamento del pizzo. Nonostante ciò le Chinatown crescono e si dilatano. Come mai? La risposta va individuata nello stretto rapporto esistente con la madrepatria. Le attività commerciali asiatiche, di fatto, sono il prolungamento in Occidente del nuovo sistema vigente in Cina: turni di lavoro massacranti in condizioni insalubri, salari da fame, violazione delle norme sulla sicurezza, contraffazione e così via…Tutto ciò consente di guadagnare molto rispetto agli alti costi che invece le industrie europee sono tenute a sopportare. Scrivono i nostri autori: “I rapporti con la madrepatria sono intensi anche perché a Pechino interessano molto le rimesse dei connazionali… nella maggior parte dei casi questi denari finiscono in Cina, dove le autorità aprono canali preferenziali per chi vuole impiegare la ricchezza accumulata all’estero in grossi investimenti a partecipazione pubblica” (pagg. 174-175). Dunque chi si arricchisce, con metodi legali ma soprattutto illegali, invia buona parte dei propri profitti nelle banche della madrepatria.

Nel nostro paese varie associazioni riuniscono i cinesi d’Italia. Costituiscono una specie di sindacati nazionali che dovrebbero tutelare gli interessi di tutti gli immigrati orientali. Sicuramente assicurano un grande prestigio a chi le dirige. Le associazioni, infatti, consentono di esercitare un rigido controllo sulle attività economiche gestite dai connazionali nei “loro” quartieri. Nascono così vere e proprie enclave che finiscono con l’espellere progressivamente i residenti italiani, grazie ad agenzie immobiliari specializzate nel reperire immobili solo per cinesi, dove ovviamente si parla esclusivamente il mandarino. Queste associazioni, raccontano Spina e Rossi, godono della protezione dei diplomatici di Pechino, che nei rari casi di scontro con le autorità italiane si sono subito mobilitati a favore dei propri connazionali, sventolando lo spauracchio del razzismo. L’allarme per il ruolo svolto da queste associazioni è stato sollevato nel 2000 dal primo rapporto unificato firmato da Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza. Nelle 70 pagine della relazione si sottolinea “l’importanza del disegno politico dell’associazionismo”, che, secondo gli investigatori, si dedica anche all’acquisizione di notizie in ambito economico-finanziario, un’attività verosimilmente riconducibile ai servizi segreti cinesi (pag. 167). La zona di via Paolo Sarpi a Milano è un classico esempio di “enclave” cinese, come quella dell’Esquilino a Roma, mentre altre Chinatown si stanno facendo strada in molte città italiane, del nord e del sud. Qui gli inquirenti hanno spesso individuato attività illecite coperte da altre “pulite”. Napoli, per esempio, è diventata la capitale dell’ import cinese di merci contraffatte. Genova, Gioia Tauro, Trieste, Catania e Taranto seguono a ruota.

E siamo così giunti al terzo gradino del grande business criminale. A Napoli l’alleanza con la camorra consente di aggirare facilmente i controlli doganali. Risultato: ogni giorno tonnellate di merci, quasi sempre contraffatte (e non di rado pericolose per gli acquirenti finali), transitano dai moli della città partenopea: scarpe non a norma, materiale elettrico potenzialmente pericoloso, giocattoli realizzati con prodotti tossici, capi di abbigliamento con marchi copiati a regola d’arte.

Nel silenzio mediatico, questo libro ci ricorda come la mafia cinese, giorno dopo giorno, stia consolidando le sue basi in Italia con metodi sempre più efferati e che influenzano, tragicamente, la nostra economia.

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