MONS. TONINO BELLO: IL PACIFISMO CHE NON CONDIVIDO (di Roberto Cavallo)

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Mia cara Silvia,

finalmente sono qui a scriverti. Davanti a me, sul tavolo fra i tanti libri e giornali piegati alla rinfusa, da qualche giorno c’è un’immaginetta di don Tonino Bello – Vescovo. Me l’hanno data insieme a qualche volume acquistato in libreria.

Sul frontespizio c’è la sua fotografia; nel retro alcune preghiere da lui composte – nel suo tipico stile volutamente anticonformista – e infine la preghiera per la canonizzazione e per chiedere grazie per sua intercessione. So che sei molto devota del servo di Dio don Tonino Bello, già vescovo di Molfetta, deceduto nel 1993 dopo una lunga malattia. Spesso si dice così – una specie di metafora – per non usare quel termine che ci inquieta un po’ tutti: cancro. Essendo nato nel 1935, facciamo due conti e scopriamo che don Tonino è morto giovane, a 58 anni. Dunque è di lui che oggi ti voglio parlare.

Il Signore l’ha chiamato giovane, giovanissimo. Anche da questa immaginetta che ho qui davanti traspare tutta la sua giovinezza e la sua bellezza, che non erano solo fisiche, ovviamente. Chi l’ha conosciuto sa quanto e quale “appeal” trasmettesse; la sua parola contagiava facilmente. La sua prestanza fisica affascinava.

Mi affacciavo appena alle scuole superiori quando lo conobbi – poco più che bambino – a Tricase, il paese natio di mia madre in provincia di Lecce.  Erano gli anni ’70-’80 e don Tonino era parroco lì, “alla chiesa madre”, come si diceva e come si dice in paese. La sua giovialità lo rendeva immediatamente familiare a tutti, ed era diventato amico dei miei zii e delle mie zie, che pure non brillavano per frequenza parrocchiale. Proveniente dalla vicina Alessano, nella diocesi di Ugento, a Tricase era ormai un mito: ammirato, stimato, amato. La sua parola calda, nell’ostentato accento sud-salentino, coinvolgeva e contagiava. I giovani lo adoravano, le donne lo seguivano affascinate. Gli uomini si pregiavano di essergli amico. Con un mio cugino di secondo grado – da sempre grande sportivo – affrontavano a nuoto lunghe traversate di mare, dalle scogliere incantevoli di Castro Marina fino a quelle di Tricase Porto: ampie bracciate, forti, costanti, sotto il sole stupendo di agosto. Qualche volta passava da casa dei miei zii a prendere un piatto di pasta, o una porzione di pesce arrostito “rustutu”. Nei paesi funziona ancora così…Lo ricordo sempre sorridente.

Questo e molto più era “don Tonino”. Riassumeva in sé gli ideali post-conciliari della preferenza per gli ultimi, e davvero li personificava. Dava del suo a chi bussava alla porta; organizzava e faceva visita agli ammalati, soprattutto a quelli anziani e abbandonati.

Non dimenticherò mai una povera donna che per anni aveva vissuto a Roma, a servizio di una ricca famiglia della capitale. Ex ragazza madre, aveva tirato su da sola il figlio. Poi questi si era sposato e, come talora capita, tra nuora e suocera non erano stati propriamente “rose e fiori”. Passano gli anni e la signora mentre a Roma lava per terra nella casa della sua datrice di lavoro inizia ad avvertire dolori alla schiena e alle gambe, via via sempre più forti. Va avanti, ma poi non ce la fa. Diagnosi: cancro alle ossa. Ritorna a Tricase, il suo paese natio. Qui si ricovera nell’ospedale fondato dal Cardinale Giovanni Panico e tuttora gestito dalle suore marcelline. Ma è sola. Ha pochi parenti ed amici. I rapporti con nuora e figlio non migliorano neppure dinanzi al male. E’ sofferente e sola. Interviene don Tonino: le fa compagnia al capezzale, e quando i suoi impegni lo allontanano da quel letto di dolore, organizza dei turni fra i parrocchiani volenterosi, affinché la malata non si senta mai abbandonata. In quelle visite – tristi – accompagnavo qualche volta mia madre e mia zia. Il ricordo di quella donna e di don Tonino si fondono uniti nella mia memoria… 

Poi, un giorno, giunse la notizia che don Tonino doveva diventare vescovo. Il paese esplose di felicità, ma anche di tristezza al pensiero di perderlo. Dal Salento si spostò così a Molfetta, sede del seminario teologico regionale.

Il 10 agosto 1982 don Tonino Bello veniva nominato vescovo della diocesi di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi, e il 30 settembre dello stesso anno vescovo della diocesi di Ruvo di Puglia, che così veniva accorpata a quella di Molfetta. Sin dagli esordi, il ministero episcopale fu caratterizzato dalla rinuncia a quelli che considerava “segni di potere” (per questa ragione continuava a farsi chiamare semplicemente don Tonino) e da una costante attenzione per gli ultimi: promosse la costituzione di gruppi Caritas in tutte le parrocchie della diocesi, fondò una comunità per la cura delle tossicodipendenze, lasciò sempre aperti gli uffici dell’episcopio per chiunque volesse parlargli e spesso anche per i bisognosi che chiedevano di passarvi la notte. Su Wikipedia di lui leggiamo: “…Sua la definizione di “Chiesa del grembiule” per indicare la necessità di farsi umili e contemporaneamente agire sulle cause dell’emarginazione.”

Nel vortice degli impegni pastorali e istituzionali, fra le altre cose, don Tonino divenne presidente di Pax Christi.

Nel 1985 fu infatti chiamato dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana a succedere a monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nel ruolo di guida di Pax Christi, il movimento cristiano internazionale per la pace. In quella veste espresse diversi duri interventi: tra i più significativi quelli contro il potenziamento dei poli militari di Crotone e di Gioia del Colle, e contro l’intervento bellico nella Guerra del Golfo, quando manifestò un’opposizione così radicale da attirarsi l’accusa di istigare alla diserzione. Erano gli anni a cavallo della caduta del Muro di Berlino: gli assetti geopolitici si stavano sconvolgendo e, come scrivono gli esperti di politica internazionale, da un mondo bipolare fondato sul confronto U.S.A.-U.R.S.S., si stava passando ad un mondo dove gli Stati Uniti assumevano il ruolo di “gendarme” del pianeta. Ma già prima che ciò accadesse don Tonino aveva fatto le sue scelte di campo: sempre e comunque per la pace e per la non violenza! Così se missili e cacciabombardieri si trovavano a due passi da casa – o dalla diocesi – avvertiva come suo dovere andare a protestare lì dove si trovavano quegli strumenti di morte. Pensava che noi cristiani, anche in ciò, dovessimo dare il buon esempio. Gli altri, i cosiddetti “nemici” dell’Occidente, per lui non erano mai tali: il comunismo sovietico o le dittature islamiste non erano un problema in sé e andavano affrontate con le armi del dialogo e della non violenza.

Semplifico, certamente, ma non più di tanto. Insomma don Tonino aveva fatto suo il pensiero pacifista, quello che nelle sue estreme conseguenze, all’apice del confronto Est-Ovest, arrivava ad affermare: “meglio rossi che morti”. La storia, in effetti, ha dimostrato che un’alternativa poi ci sarebbe stata, ed era quella del “né rossi né morti”. Ma, con tutto il rispetto per don Tonino, per Mons. Bettazzi vescovo di Ivrea e per tanti altri “catto-progressisti” (espressione forte ma che descrive), l’implosione del socialismo “scientifico” non fu dovuto alle marce pacifiste e agli interventi cosiddetti “profetici” che sicuramente attiravano la grande attenzione dei media (come non vedervi una punta di narcisismo ed autogratificazione?), quanto piuttosto ad un insieme di fattori. Fra questi, tre mi sembra siano stati i principali: la strutturale intrinseca dis-umanità del sistema comunista; la politica di fermezza attuata da Ronald Reagan con lo scudo stellare (contro cui si scatenavano le ire dei pacifisti); il messaggio personalista di Giovanni Paolo II, per cui il rispetto dei diritti dell’uomo non era subordinabile ad alcuna utopica società del benessere e dell’indefinito progresso socialista. Giovanni Paolo II, il Papa venuto dall’Est, giunse a dire, nell’enciclica “Dominum et vivificantem”, che il comunismo era un peccato contro lo Spirito Santo.

Come ben sai, cara Silvia, Gesù nel Vangelo dice che tutti i peccati e tutte le bestemmie possono essere perdonati, ma non quelli contro lo Spirito Santo…

Don Tonino Bello, uomo mite e pacifico, e soprattutto generoso, fu probabilmente travolto dalle mode teologiche imperanti nel dopo Concilio, per cui termini come “pace”, “poveri”, “ultimi”, divenivano suscettibili di una lettura e di un’interpretazione da manuale di sociologia marxista. Roba passata, mia cara Silvia, provvidenzialmente sconfessata dal tempo, ma che ha causato tanti danni che ancora oggi passano sotto silenzio. A proposito di pace e pacifismo, per esempio, di recente ho letto qualcosa che mi ha particolarmente colpito. Scrive il Prof. Filippo Andreatta nel suo libro Alla ricerca dell’ordine mondiale (cfr.: Filippo Andreatta, “Alla ricerca dell’ordine mondiale. L’Occidente di fronte alla guerra”, Ed. Il Mulino, 2004, Bologna, pag. 9): “Per i sostenitori di questa posizione (si riferisce a quella pacifista, n.d.r.) non vale mai la pena usare la forza, anche nei casi in cui essa sarebbe utile per sostenere le regole dell’ordine internazionale. Questa posizione intransigente, però, ignora il fatto che la pace – talvolta – è già stata compromessa da un atto ostile e che il suo ripristino può richiedere l’uso della forza, così come all’interno degli Stati la convivenza è garantita dall’azione della polizia. In questi casi l’assenza di una risposta adeguata all’uso della violenza non è affatto “neutrale”, ma un atto con profonde conseguenze politiche. La posizione pacifista, in altre parole, confonde la pace con il concetto di tregua – vale a dire la semplice assenza di violenza – e si concentra sulla pace come mezzo, mentre la pace è, nelle relazioni internazionali, un obiettivo che può anche richiedere l’uso della violenza”. Ecco, andare a manifestare contro i missili americani a Comiso – come si faceva negli anni ’80 – in ultima analisi non era un fatto politicamente “neutrale”, ma celava una chiara presa di posizione per l’altra parte: quella sovietica. Non a caso proprio Lenin si era inventato un’apposita definizione per indicare  quella categoria socio-politica che, specie  in Occidente, lavorava per il marxismo: quella degli “utili idioti”.

Sicuramente don Tonino Bello (e tanti altri in buona fede come lui), sinceramente innamorato del munus sacerdotale e profetico, non ne era consapevole. Ma la ricostruzione del prof. Andreatta, che sul concetto di pace sostanzialmente collima con l’interpretazione che ne offre la dottrina sociale della Chiesa, non mi sembra troppo lontana dalla realtà.

Che ne pensi?

Ciao. Ti aspetto.

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