BIBBIA E CORANO A CONFRONTO (Corriere del Giorno, 3 ottobre 2009, pag.30)

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banner_1Molti parlano di “Popoli del Libro”. Frase bella, evocativa. Parole cariche di spirito ecumenico, di buona volontà, di dialogo tra fedi. Sono le parole di Maometto, riportate nel Corano, e stanno ad indicare ebrei, cristiani e musulmani uniti, per l’ appunto, dallo stesso Libro.

Per Carlo Panella, giornalista e scrittore, le cose non stanno esattamente in questi termini. Ce lo racconta nell’ultima sua fatica letteraria: “Non è lo stesso Dio non è lo stesso uomo” (Cantagalli, Siena, 2009, pagg. 195).

Nessun Libro unisce ebrei, cristiani e musulmani, per la semplice ragione – scrive Panella – che Maometto, nel suo Corano, accusa a più riprese ebrei e cristiani di aver falsificato la Bibbia, e ancor più il Vangelo.

Per Maometto Gesù non è morto in croce, e soprattutto non è risorto dai morti: in una parola non è il Dio incarnato.

Il Dio islamico è altro, a iniziare dal momento della creazione, perché non crea Adamo “a sua immagine e somiglianza”, la qual cosa sarebbe addirittura blasfema. Mentre il Dio giudaico-cristiano stringe un patto di Alleanza con l’uomo (sino a sacrificare il proprio Figlio unigenito!), il Dio musulmano invece chiede a più riprese l’“islam”, e cioè la totale “sottomissione” degli uomini.

Non si tratta, ovviamente, di fare una scala di valori, ma di constatare che Bibbia e Corano nulla, o poco, hanno a che fare l’una con l’altro.

Quel poco scaturisce dal fatto che fin dal periodo meccano Maometto entrò in contatto con ebrei e cristiani, da cui apprese un’infarinatura dell’ Antico e del Nuovo Testamento. Ma il Dio tratteggiato dall’Islam resta sostanzialmente sconosciuto all’uomo, che può indagarne la volontà solo attraverso la lettura del Corano, disceso direttamente dal cielo e considerato “increato”. Questo fatto del “Corano Increato” è diventato nel mondo musulmano un vero dogma, largamente prevalente e condiviso. Non essendo creato, il Corano sarebbe proprio la parola diretta di Dio: trascendente, sacra, intoccabile. Ergo, non interpretabile. Tutto ciò è stato nel tempo gravido di conseguenze, perché ha impedito di accostarsi alla sacra scrittura con spirito critico, bloccando la speculazione teologica e filosofica. Tale approccio ha così gettato un’ombra di sospetto su qualsiasi libro che non fosse il Corano, mortificando cultura e scienze. Basti pensare che al termine della civiltà islamica medievale, nel 1483, il Califfo Bayazit II decretò a Istanbul la proibizione assoluta, pena la morte, non solo della stampa di libri, ma anche della lettura di libri stampati. A seguito di quel decreto i libri stampati in arabo e in turco, così come in urdu e in tutte le lingue dei paesi musulmani, sono stati proibiti e quindi assenti fino alla metà del 1800. Ma quel che è fondamentale ricordare è che questo divieto aveva come origine proprio il dogma del “Corano Increato”: la scrittura di altri testi, infatti, avrebbe potuto ingenerare confusione fra i fedeli musulmani, che altro non dovevano conoscere se non il Corano.

Il divieto di interpretare, ma anche di interrogarsi serenamente sul destino dell’uomo, unitamente al pregiudizio per il testo scritto, starebbero per Panella all’origine di un’autocensura che ha accompagnato l’Islam fin dal suo inizio. Tutto ciò sarebbe – alla lunga – responsabile anche del secolare gap tecnologico che ha diviso l’Oriente islamico dall’Occidente.

Come spiegare allora il grande fiorire della civiltà islamica medievale, che ha visto in Avicenna (980-1037) e in Averroè (1126-1198) i suo i rappresentanti di maggiore spicco? Per Panella la risposta va individuata nella ricchezza delle civiltà sottomesse dalle armate musulmane, e in particolare di quella cristiano-bizantina e – ad oriente – di quella indiana. I conquistatori subirono il fascino e apprezzarono i vantaggi di quelle società molto più progredite.

Il processo di profonda ibridazione culturale subito dai romani, cui bastarono pochi decenni per essere presi dalla cultura ellenistica, si replicò parzialmente quando i musulmani conquistarono l’immenso territorio che andava dall’Andalusia all’India: “…Questo processo fu tanto radicale che modificò, ma solo per alcuni secoli – quelli della grande civiltà araba – la stessa immagine, la stessa concezione dell’uomo quale era stata delineata nel Corano. Nei cinque secoli di civiltà arabo-islamica egemone, ma solo in quelli, l’incontro con la cultura ellenistico-giudaico-cristiana mutò infatti profondamente la stessa antropologia coranica, che divenne altra.” (pag. 61).

Non a caso tutta l’opera di Averroè, tutto il suo ricercare appoggio nel pensiero aristotelico e platonico, ha lo scopo di sconfiggere la dogmatica antifilosofica imperniata sulla concezione del “Corano Increato”.

Solo recentemente la storiografia ha iniziato a sondare quel passaggio che pure era così evidente, ma mai studiato: l’assunzione dell’eredità bizantino-cristiana (quindi anche ellenistico-giudaica) da parte del mondo musulmano. Era evidente che da qualche parte era arrivato nel nerbo stesso della cultura islamica e della sua civilizzazione un enorme apporto del cristianesimo e di quanto lo aveva preceduto e formato. Era evidente, insomma, il debito immenso che la civilizzazione islamica aveva contratto nei confronti del cristianesimo – e dell’ebraismo – professato ai più alti livelli di elaborazione culturale da tutti i popoli che l’Islam aveva conquistato nell’arco di pochi decenni.

Da tale assimilazione si sviluppò il felice periodo della civiltà araba, che però terminò intorno al XV secolo. Terminò quando ormai venne ad esaurirsi la spinta propulsiva della soggiacente cultura cristiana. A ciò contribuirono le conversioni all’Islam di molti cristiani orientali, che finché restavano tali erano comunque considerati cittadini di serie “B”, e cioè dhimmi. Senza dimenticare poi che i figli nati da coppie miste per legge venivano automaticamente immessi nella fede coranica. Così, con la progressiva islamizzazione dei territori un tempo cristiani cessarono i benefici effetti della cultura giudaico-cristiana.

Il risultato è che Averroè è stato tanto fondamentale per la storia del pensiero e della civiltà occidentale, quanto è stato marginale per la storia successiva del pensiero e della civiltà islamica. Ma altri esempi analoghi potrebbero farsi.

La nostra ipotesi – scrive Panella – è che tutto inizi e finisca non solo nella teologia del Dio disegnato dal Corano, ma soprattutto nel peso, nella zavorra, nell’impaccio che l’uomo descritto dal Corano apporta alla stessa teologia, alla stessa possibilità che il pensiero alto islamico – Averroè, appunto – potesse attecchire e fruttificare e non essere ignorato, avversato, mai compreso, come invece avvenne…” (pag. 63).

In definitiva la concezione che l’Islam ha dell’uomo è quella di un semplice “fedele obbediente”, che difficilmente si interroga e si tormenta sul mistero dell’esistenza. Come Benedetto XVI ha più volte ripetuto nel corso del suo magistero, non solo la fede ma anche la ragione (e non la spada …!)  deve accompagnare il cammino degli uomini in questo pellegrinaggio terreno; ragione che dev’essere guida specialmente nel dialogo con le altre fedi e con le altre culture.

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