PUTIN, IL FALCO CHE SI SPACCIA PER COLOMBA, L’AGGRESSORE CHE SI SPACCIA PER AGGREDITO

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Di Mario Sechi da Libero del 19/02/2024:

La morte di Alexei Navalny è più di un memento sulla realtà della Russia e del suo presidente, è una distesa di campane che rimbomba per tutto l’Occidente, è il richiamo di un’antica battaglia che qualcuno pensava chiusa con il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, è lo scontro tra il Bene e il Male che per cinquant’anni definì la vita nell’era della Guerra Fredda. Vladimir Putin è responsabile della sua morte per un motivo corazzato da una ferrea logica, in punta di diritto e di fatto: Navalny era sotto la custodia della Russia, è morto a 47 anni a Kharp, nel Circolo Polare Artico, in una prigione il cui nome evoca tutta la sua durezza, “la colonia dei lupi polari”.

Come ha ricordato l’editorial board del Financial Times, dopo Stalin, la dissidenza in Unione Sovietica era punita con la prigione, l’esilio interno o l’allontanamento all’estero, ma l’assassinio era un evento raro; nella Russia di Putin l’avversario politico che non si allinea al Cremlino perde la vita.

Un tempo erano i “raffreddori sovietici”, oggi è una formula sofisticata, “sindrome da morte improvvisa”, il risultato è lo stesso, la sparizione di un oppositore scomodo.

Era una fine annunciata, nel 2020 il dissidente russo era sopravvissuto all’avvelenamento – quasi certamente ad opera di agenti della sicurezza – con un gas nervino di tipo militare, il Novichok.

Putin certamente aveva messo nel conto l’incidente, il cedimento, tutta la procedura di falso, verosimile e vero che si mette in moto quando un uomo viene letteralmente mandato a morire in un luogo dove non c’è domani. La morte per mano della Russia non prevede né pietas né onore, la Grande Falciatrice colpisce e se ne va, al resto pensano le squadre di “pulizia” dei servizi segreti, le burocrazie dell’assassinio.

Il corpo di Navalny sarà restituito alla famiglia quando tutta la liturgia del “dopo” sarà consumata. È una routine che Putin conosce bene, era lui a occuparsene quando era un ufficiale del Kgb.

L’uomo del Cremlino ha mandato a morire al fronte centinaia di migliaia di giovani russi, non si pone certo il problema di uno, nemmeno se si chiama Navalny. L’Occidente ha sottovalutato Putin e la Russia. George F. Kennan, l’inventore della dottrina del “containment”, ammoniva: «La cosa migliore che possiamo fare, se vogliamo che i russi ci lascino fare gli americani, è lasciare che i russi facciano i russi». A un certo punto alla Casa Bianca e al Pentagono hanno lasciato fare troppo, mentre l’Europa si è legata a Mosca con la politica del tubo, a noi gas e petrolio, a loro la guerra.

Quando John McCain descriveva la Russia come una enorme stazione del gas non coglieva la grandezza della tragedia russa, la sua pericolosità per il mondo libero: una potenza energetica con la bomba atomica e un nuovo gruppo di potere pronto a colpire chiunque; gli oligarchi erano solo uno strumento di espansione economica, un mix di oleodotti e gasiere, squadre di calcio e superyacht, donne bellissime e strani racconti di sparizioni improvvise, avvelenamenti, tutto quello che Ian Fleming, avendo lavorato nella Naval Intelligence Division, conosceva bene e trasfuse nei libri di James Bond.

I segnali della cronaca nera non mancavano, per sapere e per capire in tempo, ecco un elenco rapido che mette i brividi: l’uccisione della giornalista Anna Politkovskaya (pistola, 2006); di Alexander Litvinenko (Londra, polonio, 2006); di Stanislav Markelov e Anastasia Baburova (pistola, 2009) già collaboratori di Politkovskaya; come anche di Natalia Estemirova (rapimento e pistola, 2009); dell’oligarca Boris Berezovsky (Londra, laccio, strangolamento, 2013); di Boris Nemtsov (pistola, 2015); di Mikhail Lesin (Washington, pistola, 2015); di Dan Rapoport (Washington, finestra del suo appartamento, 2022); di Ravil Maganov (Mosca, finestra d’ospedale 2022); di Pavel Antov (India, Rayagada, finestra di un hotel, 2022), di Yevgeny Prigozhin (cielo di Mosca, missile, 2023).

In uno scenario di delitto e castigo, quella di Navalny era una notizia che non poteva sorprendere un cronista attento agli usi e costumi di Mosca. La scomparsa del principale avversario interno di Putin sollecita una risposta che non è quella retorica, ma il concreto impegno dell’Occidente in Ucraina e la messa in sicurezza del fronte orientale dell’Europa. Quanta imprudenza, quando prima la resistenza e poi la controffensiva di Kiev venivano descritte come un successo ineludibile, Putin preparava la sua guerra di logoramento. Il suo doppio fronte, politico e militare, si dispiega con una strategia di penetrazione raffinata che approfitta dei “buchi” delle nostre democrazie, delle nostre debolezze. 

Putin punta a fiaccare la volontà dell’Europa e degli Stati Uniti, si fa intervistare dal giornalista americano Tucker Carlson perché sa di poter catturare l’audience dei repubblicani (e dei democratici) più isolazionisti, parla di pace e negoziato (anche ieri) per alimentare l’idea che siano gli americani e gli europei a volere la guerra, il paradosso dell’aggressore che si spaccia per aggredito, il falco che diventa colomba.

Putin guarda alle nostre incertezze con il sorriso di un avvoltoio, la guerra in Ucraina per Mosca è un fattore esistenziale, in questo senso non può perderla. Dovrei aggiungere ora un “non può vincerla”, ma questo è un passaggio del testo valido solo se gli alleati di Kiev stanno uniti, se il Congresso americano dà il via libera agli aiuti, se l’Unione europea prende coscienza del nuovo scenario che prevede la guerra e l’ombrello difensivo americano non è più così certo, se i partiti politici (e questo va fatto con grande impegno in Italia) raccontano la verità agli elettori, i sacrifici, i rischi, le opportunità.

Navalny non è morto invano, il suo martirio ci ricorda che siamo di fronte a un romanzo ad altissima tensione dove le impronte digitali della Russia sono visibili: l’Ucraina invasa, i legami con l’Iran terrorista, gli incontri con Hamas, la manina nello Yemen, la destabilizzazione dell’Africa con i mercenari di Wagner, un franchising internazionale dell’assassinio e del colpo di Stato. Putin temeva Navalny perché usava l’arma più potente, la parola. Grazie a lui abbiamo la memoria di quanto sia importante parlare, scrivere, testimoniare.

Questa è una grande guerra e non possiamo perderla.