PER UNA RILETTURA DEL RISORGIMENTO (Corriere del Giorno, 19 marzo 2010, pag.32)

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Unità-senza-identità1Il sottosegretario all’Interno On.le Alfredo Mantovano, intervenendo il 16 febbraio u.s. sul Corriere della Sera con una lettera aperta sul tema della “Nazione spontanea“, felice espressione dello storico federalista Mario Albertini (1919-1997), ha inteso ricordare quell’Italia pre-unitaria che, pur se divisa da confini al suo interno, aveva “…una comune identità, era fondata su una comune religione, su principi e cultura sostanzialmente omogenei, e su un’articolazione sociale ricca e variegata, in città dall’antica tradizione…”.

Il processo risorgimentale arrecò una prima cesura fra quell’Italia reale (la Nazione spontanea) e l’Italia legale-burocratico-amministrativa che ne seguì. Non a caso, a 150 anni di distanza, il dibattito risorgimentale è ancora di straordinaria attualità, nonostante i tentativi di demonizzare le voci di dissidenza, presenti numerose tanto al Nord quanto al Sud della Penisola.

E’ allora possibile per gli Italiani del terzo millennio recuperare una memoria condivisa del loro passato? E se sì, come?

Sono queste alcune delle domande cui cerca di rispondere l’ultima fatica letteraria di Giuseppe Brienza, giornalista e scrittore valente, che per le Edizioni Solfanelli di Chieti ha pubblicato un interessante libro sul Risorgimento italiano.

Giuseppe Brienza non è nuovo a trattare questo particolare periodo della nostra storia, su cui ancora oggi si discute in termini non solo accademici ma anche politici.

Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani” è il titolo di questo recente volume, che raccoglie l’insegnamento di alcuni noti storici della pubblica amministrazione come Gianfranco Miglio e Roberto Ruffilli, il docente universitario che fu assassinato dalle Brigate Rosse nel 1988.

L’Autore prende in considerazione la realtà burocratico-amministrativa degli Stati italiani confrontandola con quella del neonato Stato unitario, proponendone una visione oggettiva.

Punto saliente dell’indagine è il 1865, allorché vennero varate le leggi di unificazione amministrativa, con cui furono definiti e stabilizzati gli assetti istituzionali della nuova Italia unita. Quelle leggi sono state criticate da autorevoli storici della pubblica amministrazione (cfr.: per tutti, vedasi F. Bonini, “Storia della Pubblica Amministrazione”), in quanto non tennero in alcun conto la legislazione e la fisionomia istituzionale degli Stati pre-unitari. Qui si colloca, dunque, il controverso tema della “piemontesizzazione” e la nota formula ideologica per cui “fatta l’Italia occorreva fare gli Italiani”. Specie i governi successivi all’ esecutivo di Cavour attuarono la visione statalista fondata sulla lezione della Rivoluzione francese, fatta propria dalla sinistra piemontese. Si applicava all’Italia un “abito” che cozzava profondamente con la natura degli organismi politici e sociali preunitari, i quali erano caratterizzati dalla presenza di numerose autonomie locali e giurisdizioni particolari. Non solo: il pluralismo oltre che territoriale era stato anche sociale, avendo nella famiglia e nelle corporazioni (sorte sia a scopo mutualistico-previdenziale che religioso) i propri solidi punti di riferimento. Il criterio originale e fondamentale dell’organizzazione amministrativa dello Stato pontificio, per esempio, consisteva nella centralità della persona e della famiglia all’interno delle strutture cittadine. Province e legazioni, poi, godevano di ampie autonomie rispetto al governo di Roma.

Il totale disinteresse del nuovo Regno d’Italia per le realtà locali è dimostrato in particolare dall’allegato “A” (riguardante le province e i comuni) alla legge 20 marzo 1865 n°2245: il prefetto è indicato a capo dell’esecutivo delle amministrazioni provinciali. Ma, all’insegna dell’accentramento, anche il sindaco è di nomina regia. In tutto il Sud fu abrogato il diritto consuetudinario a favore del codice di diritto civile piemontese. I contadini, che inizialmente avevano favorito la caduta del regime borbonico, compresero che i vantaggi del nuovo regime andavano a quelle limitate categorie borghesi che ora si apprestavano a godere i frutti della vittoria. Tutti, infine, si accorsero che la tassazione corrente (necessaria per far fronte all’enorme debito piemontese e alle ingenti spese di guerra) era più esosa di quella esistente anteriormente all’arrivo dei cosiddetti “liberatori”.

La riflessione che si trae dalla lettura del libro di Giuseppe Brienza è che, in ultima analisi, il Risorgimento italiano fu una grande occasione persa. L’unificazione tedesca promossa dalla Prussia, basata su una volontà condivisa intorno ad un più forte accordo doganale (Zollverein), costituisce un esempio concreto di come l’unità fosse perseguibile con altri strumenti, sicuramente più pacifici e meno devastanti. Strumenti già preconizzati da valenti intellettuali cattolici del tempo come, per esempio, Antonio Rosmini.

Nell’attuale dibattito sul federalismo – conclude Brienza – senza indugiare in “nostalgie” fuori tempo e luogo, occorrerà allora prima di tutto conoscere e riconoscere su basi oggettive la storia di tutti gli Italiani, anche di quelli “vinti”. Occorre cioè mettere mano a un’operazione storiografica simile a quella che da qualche anno a questa parte si sta conducendo sulla Resistenza, senza beatificazioni di sorta ma con il riconoscimento oggettivo dei fatti. Solo così sarà possibile porre le premesse di quella riconciliazione nazionale di cui, a partire dal secondo dopoguerra, ancora si va in cerca.

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