RELIGIONI E RELAZIONI INTERNAZIONALI. ATLANTE TEOPOLITICO

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Pasquale Ferrara è diplomatico di professione, studioso di politica internazionale e fine saggista. Di recente (2014) scrive un saggio per i tipi di “Città Nuova”: Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico.

L’idea, lo anticipa il titolo, è originale: colmare un handicap presente negli studi di relazioni internazionali, che almeno da un paio di secoli hanno volutamente bandito le religioni dal proprio orizzonte scientifico. Ferrara, che come diplomatico ha svolto incarichi a Santiago del Cile, Atene, Bruxelles, Washington nonché a Roma come portavoce dell’unità di analisi della Farnesina, parte dalla sua esperienza professionale per riconoscere che il fenomeno religioso suscita oggi crescente interesse. In almeno otto occasioni ha avuto a che fare nelle varie parti del mondo con situazioni in cui i fattori religiosi rappresentavano elementi essenziali delle questioni internazionali che si trovava ad affrontare.

Il saggio, che pure nasce da una constatazione opportuna e doverosa (l'importanza dell'elemento religioso nello studio delle relazioni internazionali), ci lascia alquanto perplessi nella sua interpretazione “politicamente corretta” dell’Islam
Il saggio, che pure nasce da una constatazione opportuna e doverosa (l’importanza dell’elemento religioso nello studio delle relazioni internazionali), ci lascia alquanto perplessi nella sua interpretazione “politicamente corretta” dell’Islam

Negli USA, per esempio, esiste un ambasciatore ad hoc per la libertà religiosa all’interno del Dipartimento di Stato. C’è dunque un ritorno delle religioni sulla scena politica internazionale e quello islamico è sicuramente l’esempio macroscopico, ma non l’unico. L’Autore osserva che, a ben vedere, le religioni non sono mai state assenti, nei fatti, dalle relazioni internazionali. Solo che esse sono state messe tra parentesi nello studio delle relazioni internazionali e relativizzate nella condotta delle relazioni diplomatiche. Ciò avveniva in omaggio al paradigma della secolarizzazione, sviluppato da intellettuali come Weber, Marx, Comte, Freud (pag. 18). Il concetto che ha influenzato gli ultimi due secoli affermava, in sostanza, che quello religioso era un fenomeno regressivo e comunque destinato a soccombere di fronte alle “sorti magnifiche” della modernità. Al contrario oggi assistiamo ad una profonda globalizzazione del fattore religioso, che anzi può rivelarsi particolarmente utile nella costruzione di rapporti di fratellanza e di inclusione. Esempio concreto, per Ferrara, è rappresentato dalle riunioni periodiche dei rappresentanti delle religioni mondiali, come quelle che hanno luogo in occasione di vertici politici internazionali tipo G8 o il G20. “La mia tesi” – scrive Ferrara – “è che sarebbe un errore sottostimare l’influenza delle prospettive e delle proposte riguardanti la governance globale fondate su sfere di valori religiosi.” (pag. 76).

Dopo aver considerato il fattore religioso come un elemento di aiuto pratico alla politica mondiale e alla governance globale, l’Autore si sofferma (e non poteva essere diversamente!) sull’Islam, nella prospettiva della fine dello Stato di stampo westfaliano e dell’apertura alla comunità transnazionale.

Qui, però, le sue prese di posizione lasciano alquanto di stucco: lo scopriamo infatti favorevole all’ingresso della Turchia nell’U.E. (se ciò avvenisse, solo per fare un esempio, quello musulmano diventerebbe il blocco politico predominante all’interno del parlamento europeo) mentre non ha remore a considerare “falsa” la percezione di quegli Occidentali che giustamente si considerano sotto assedio (come del resto più volte è accaduto in passato: Gerusalemme, Costantinopoli, Vienna docent). Il diplomatico Ferrara si unisce così al coro – assordante – del politicamente corretto per distinguere gli Islamisti “cattivi” che inseguono un sogno di mero potere terreno, da quanti invece si dedicherebbero alla “pacifica” diffusione del credo di Maometto, dimenticando così che il “Profeta”, prima di essere uomo di chiesa (anzi, di moschea!) fu abile generale e predone di carovane, acerrimo nemico delle tribù ebraiche di Medina, che non a caso furono liquidate nel sangue. Anche di peggio fecero i califfi suoi immediati successori.

Ma tornando ai giorni nostri, l’ambasciatore Ferrara dovrebbe forse ricordare che la Turchia, presa quasi a modello di democrazia islamica, ha visto praticamente azzerarsi la presenza cristiana nel corso dell’ultimo secolo, mentre seri dubbi (tanto per usare un eufemismo!) sussistono oggi sul rispetto delle altre minoranze e in generale dei diritti umani. Peggio che andar di notte è per altri Stati, come il Pakistan, dove la condanna a morte per chi insulta il Profeta non arriva dai terroristi ma direttamente dalle Corti di giustizia dello Stato islamico. E per non parlare – ancora – della condizione delle donne…

Appare allora alquanto difficile che la trans-nazionalizzazione dell’Islam possa portare a qualcosa di costruttivo in termini di pace e di governance mondiale, come, invece, sembra prospettare l’Autore. Se questo è il caso di altre religioni – quella cristiana in primis – fondati dubbi si pongono per l’Islam, la cui aggressività geopolitica sembra ripercorrere il suo iniziale sviluppo, nei secoli VII ed VIII, basato più sulla spada che sul libero convincimento delle idee.

Il problema, in definitiva, è che non si può fare di tutta l’erba un fascio, nel senso che non tutte le religioni e le derivanti espressioni culturali “necessariamente” e “automaticamente” servono la causa dell’uomo e dell’umanità. Alexis de Tocqueville, il noto esponente del pensiero liberale classico, già nel 1843 scriveva: “Dopo aver studiato moltissimo il Corano, la convinzione a cui sono pervenuto è che nel complesso vi siano state nel mondo poche religioni altrettanto letali per l’uomo di quella di Maometto.”.

Finché non si avrà il coraggio e soprattutto l’onestà intellettuale di ammetterlo, non si sarà fatto un buon servizio alla pace, oggetto ultimo delle relazioni internazionali.

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