“La Cina si è svegliata e il mondo trema. Mai nella storia una nazione così grande (1 miliardo e 300 milioni di abitanti) aveva conosciuto una crescita così forte (8% annuo) per un periodo così lungo (25 anni) Se nell’ultimo quarto di secolo il mondo ha cambiato la Cina, oggi è la Cina a cambiare il mondo e d omani sarà, probabilmente, la prima potenza economica, davanti agli Stati Uniti“: questa “foto”, che appare sulla retrocopertina del nuovo libro di Erik Izraelewicz (La Sfida. Se la Cina cambia il mondo, Edizioni Lindau, Torino, 2005, pagg.268, euro 18,50) non è esercizio di fanta-geopolitica, ma parte di una descrizione realistica di cui l’Occidente sembra non voglia nemmeno sentir parlare.
Il libro, ora tradotto in Italia, è diventato un grande bestseller in Francia, dove in pochi mesi ha venduto oltre 50.000 copie. Da noi qualcosa di simile (anche nel titolo!) è stato prodotto da Giulio Tremonti (Rischi Fatali, della Mondadori), ma senza il successo – probabilmente per ragioni di carattere strettamente politico – che La Sfida ha invece ottenuto in Francia. Il messaggio comunque è il medesimo: l’Europa non può nascondere la testa nella sabbia e mentire a se stessa. La favola che circola da noi (molto di meno negli Stati Uniti!) è che se la Cina eccelle nella produzione di merci dozzinali a basso costo, per salvare i nostri standard occupazionali e il nostro benessere bisogna puntare, ancora di più e sempre di più, sull’innovazione tecnologica e sulla ricerca avanzata. Nei convegni per specialisti e nelle interviste ai grandi giornali spesso si rilasciano simili dichiarazioni, e poi tutti sembrano un po’ più tranquilli. Purtroppo la realtà non è questa.
Erik Izraelewicz, scrittore ed esperto di economia (è redattore del quotidiano economico francese “Les Echos“), nel suo libro dimostra non solo che fra 3 o 4 anni la Cina – secondo i più aggiornati dati della Banca Mondiale – produrrà il 50% del fabbisogno mondiale in campo tessile, ma che già dai primi anni ’90 essa ha notevolmente allargato i propri orizzonti, imponendosi in campi del tutto innovativi (elettricità, elettronica, telecomunicazioni, informatica, ecc.). In conseguenza di ciò, dall’officina del mondo esce ormai il 50% dei computer e degli apparecchi fotografici, il 35% dei telefoni cellulari, il 30% dei televisori e dei condizionatori, il 25% delle lavatrici
Tutto questo, come al solito, a prezzi non solo competitivi ma talora stracciati, visto che in Cina i salari sono irrisori e secondo le previsioni degli economisti tali ri marranno ancora per molto tempo. L’imponente esercito di forza lavoro sottoccupata o disoccupata, nell’ordine di decine di milioni di persone, consente di mantenere il costo medio del lavoro in un rapporto che è di 1 a 30 rispetto a quello degli Stati Uniti. Ciò significa che con la retribuzione di un operaio statunitense si possono pagare fino a 30 lavoratori cinesi. Rapporti non molto dissimili valgono per l’Europa.
I più penalizzati nel breve periodo saranno comunque Paesi in via di sviluppo come Messico, Tunisia, Filippine, che avevano puntato tutto – anche loro – sui bassi salari della manodopera. Ma anche molte regioni europee dove il costo del lavoro è tradizionalmente più basso (come in alcuni distretti industriali del Sud Italia), la crisi occupazionale è fortissima. Nel campo del tessile e delle calzature, per esempio, nessuno ormai può competere con la Cina.
Paradossalmente gli aspetti più deleteri del capitalismo (manodopera in abbondanza da sfruttare) hanno trionfato in un regime che a tutti gli effetti è e si dichiara comunista. Ai vecchi ideologi oggi si sono affiancati giovani ingegneri, imprenditori e speculatori.
Oltre che sui bassi salari la concorrenza cinese fa forza sulla contraffazione, industria spesso alimentata dalle sovvenzioni di Stato.
Eppure, scrive l’Autore, la competizione cinese non si limiterà alle sole industrie basate sull’impiego massiccio di manodopera; ben presto essa si imporrà nel campo dell’high-tech e dei servizi. Entro il 2010 la Cina sarà in grado di affermarsi con marchi propri di altissima qualità, del tipo Christian Dior o Gucci (pag.165), mentre crescono gli investimenti nel campo della ricerca e dell’innovazione, dalle biotecnologie all’ingegneria spaziale.
Con l’entrata nel WTO nel dicembre del 2001, il mercato mondiale si è totalmente aperto alla Cina, e questa ne ha approfittato assicurandosi commesse ma anche materie prime e risorse energetiche. Multinazionali cinesi del petrolio e del gas naturale, come le consorelle dell’energia atomica, sono attivissime in Russia e nel Medio Oriente, privilegiando i rapporti con l’Iran, stella nascente dell’opzione nucleare.
L’asse energetico Cina-Russia è oramai prossimo da venire, mentre gli inverni dell’Europa saranno sempre più freddi.
Anche il Giappone degli anni ’60 faceva paura all’Occidente; ma, nota Erik Izraelewicz, nulla è paragonabile alle dimensioni e alla voracità di questa Cina: è un caso unico nella storia.
Se la descrizione del libro è impietosa, perchè fotografa la “belva” nelle sue reali dimensioni, si comprende che il suggerimento circa il “che fare” non è di facile formulazione. L’Autore si limita a paragonare l’ingresso della Cina sulla scena mondiale a quello di un elefante in un negozio di porcellane: “ per fargli posto è necessario domarlo un poco” (pag.264).
Sarebbe quindi interessante conoscere il suo pensiero circa le migliori tecniche da impiegare per domare l’elefante. O, forse meglio, il drago !
Roberto Cavallo