DA MARIAZELL A ESZTERGOM, DA OTTO A MINDSZENTY. FINO AL BEATO CARLO (di Guido Verna) – 2^ Parte –

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Il processo al cardinale Mindszenty

 

I cattolici senza aggettivi “specificativi” della mia generazione avevano voluto — e volevano ancora  e vorranno sempre — molto bene al Cardinale,  che — se pure a prima vista “vinto” —  aveva dimostrato come, con il coraggio della Verità, dopo il “bruno” nazionalsocialista anche il “rosso” socialcomunista potesse essere arginato, aliment and o così ancor di più la speranza accesa e tenuta viva da Fatima per cui anche quest’ultima variazione cromatica del socialismo potesse essere respinta e addirittura sconfitta.

Il Cardinale era una figura assolutamente esemplare, che un personaggio altrettanto grande ed esemplare come padre Werenfried van Straaten — il mitico padre Lardo, il fondatore nel 1947 di quella straordinaria macchina della carità che è L’Aiuto alla Chiesa che soffre, da lui stesso consacrata, nel ’67, alla Madonna di Fatima — descriveva così: «Egli soffrì soprattutto per la decisione di Paolo VI, a lui incomprensibile, di dichiarare vacante la sede arcivescovile di Esztergom nella speranza di alleviare così le sofferenze della Chiesa perseguitata in Ungheria. Il fatto che egli non si sia ribel lato a questa decisione, ma abbia accettato la croce impostagli da colui dal quale mai se la sarebbe aspettata, dal punto di vista della fede fu il coronamento della sua vita eroica. Il suo destino amaro ci ricorda che tutti gli sforzi per salvare la Chiesa minacciata rimangono sterili senza la silenziosa Via Crucis di martiri ignorati e le suppliche di oranti sconosciuti. Da costoro la Chiesa attinge sempre nuova forza vitale. Cosi, quel che accadde al Cardinale, si manifesterà un giorno come la vittoria della Croce. Ecco perché il Signore lo ha permesso» [WVS].

Del Cardinale avevamo letto con affetto e passione, nel 1975 — purtroppo, anche l’anno della sua morte —, le Memorie, che una coraggiosa casa editrice, infrangendo la cappa di omertà che gravava sull’Italia di allora, aveva avuto l’“ardire” di pubblicare.

In più, per chi come noi si occupava tematicamente di Dottrina sociale della Chiesa — soffocata dalla “scelta religiosa” dei “cattolici adulti” di allora insediati ai vertici dell’Azione Cattolica — era un sollievo e un incoraggiamento straordinario poter leggere pensieri come questi: «Dove vivono cittadini timorati di Dio là si osserva la legge; dove si osserva la legge là l’ordine interno è assicurato; dove l’ordine interno è assicurato là lo Stato è forte. Chi è in grado di moderare gli uomini meglio della religione, che mantiene l’ordine non con mezzi esterni e incutendo timore, bensì insegnando a sorvegliare e a dominare gli istinti e le passioni? Difendere e assicurare perciò i nostri diritti necessari a una vita cattolica nella Chiesa, che è il luogo santo della vostra unione con Dio; nella scuola, che è una educatrice importantissima dei vostri figli; nella società, che determina l’ordine esteriore e l’ambito della vostra vita» [dalla lettera pastorale comune dei vescovi ungheresi, stesa da József Mindszenty su incarico del presidente József Grösz, maggio 1945, in JMI, pp.44-45].

O come questi: «Un detto molto citato suona così: “La religione è una faccenda privata”. Il 20 ottobre 1946 presi posizione nei suoi riguardi a Pécs: “Portare i capelli a spazzola o con la riga, mangiar carne o essere vegetariani, può essere una faccenda privata. Sono cose che non toccano gli altri e la società. Ma per lo Stato non è più una faccenda privata se nel mio giardino ho più di duecento piante di tabacco e se distillo vinacce e susine con o senza l’autorizzazione della finanza. Io penso che per la società sia almeno altrettanto importante se uno ammette l’esistenza di Dio e di un’anima immortale; se riconosce l’esistenza di una relazione tra i due; se riconosce l’esistenza del pr ossim o o pensa che noi siamo soltanto un branco di lupi ululanti. Chi vuole accantonare la religione nella vita pubblica, mira in realtà a imporre la propria vita privata piuttosto povera di valori. Non c’è quindi motivo perché non si debbano proclamare al di fuori delle mura delle chiese comandamenti come quelli che dicono di non uccidere, di non fornicare, di non dire il falso e di non calunniare. La pertinenza del detto sopra citato, così come la bontà di qualsiasi albero, si misura dai suoi frutti. Dove la religione è una faccenda privata, la vita viene soffocata nella corruzione, nel peccato e nelle atrocità». [JMI, p.114]

O, ancora come questi: «[…] imparai tempestivamente a conoscere quale nemico della Chiesa si parava davanti a noi e quante cose terribili ci aspettavano. “Ogni concetto di Dio è una viltà innominabile, un esecrabile autoinsulto”, aveva scritto Lenin a Gorki, affermando chiaramente che i comunisti si proponevano come programma di diffondere l’ateismo. Come essi combattono l’individuo e la proprietà privata, così cercano di trasformare nel senso da loro voluto la famiglia e il matrimonio, eliminando l’opposizione, anche se il modo di perseguitare i cristiani di Stalin è un pò diverso da quello di Nerone, di Giuliano l’apostata e delle rivoluzioni. Uno degli slogan comunisti suona infatti così: “Noi non togliamo le chiese al popolo ma il popolo alle chiese”. Questi studi storici mi avevano insegnato a tempo che i compromessi con un tal nemico avevano giovato quasi sempre a lui. […] I castelli e le fortezze cadono ma la Chiesa, pur con tutta la sua debolezza umana, non andrà mai a fondo. Il sangue dei martiri è stato sempre seme da cui la Chiesa spunta per andare incontro al suo mattino di Pasqua». [JMI, p.35].

Chi credeva in Fatima, non poteva, avendone la possibilità, non andare a Mariazell.

4. Pellegrini a Mariazell: le lampade a olio e la promessa

Nell’85 andammo. Fu una grande emozione, culminata con un Rosario sulla tomba del Cardinale. Lo dedicammo anzitutto alla libertà dell’Europa, ma anche a quella della nostra Italia, nella quale — utilizzando espressioni eufemistiche “lievi” e non grevi come forse i personaggi avrebbero meritato — cattolici totalmente diversi da Mindszenty operavano in politica senza mostrare nemmeno un briciolo della sua sensibilità percettiva rispetto alla ideologia comunista.

Di quella visita, conserviamo nitidamente nella memoria due ricordi. Il primo fu qualcosa che  ci lasciò interdetti: nella Messa, per la prima volta in vita nostra, vedemmo i fedeli comunicarsi prendendo la Particola in mano; ne ricavammo una sorta di fastidioso “disagio da incomprensione” ancora permanente, apparendoci questo “rifiuto” di mediatori come un gesto di presuntuosa autosufficienza dell’uomo nel suo rapporto con Dio, il massimo grado dell’individualismo. Tutt’al contrario, il secondo ricordo — a noi che venivamo dall’Italia gramscianamente “egemonizzata” — ci stupì felicemente e ci commosse: nella Ladislauskapelle, i lumi perennemente accessi erano alimentati dall’olio che ciascun land austriaco si era impegnato a fornire, ognuno per una o più nazioni ancora sotto il giogo comunista, fino al ritorno in esse della libertà. La Carinzia — per esempio e ovviamente con accoppiamenti a caso — si era fatta carico di alimentare il lume per la Jugoslavia, il Burgenland per l’Ungheria, il Tirolo per la Cecoslovacchia e così via. La fornitura di quell’olio che teneva in vita la fiammella della speranza per la libertà delle nazioni sorelle, ci sembrò un gesto partecipativo e solidale di imperiale nobiltà, un luminoso rovescio di medaglia rispetto alla Particola in mano. (Nulla cambierebbe in questo “senso”, se invece dei lumi fos sero stati ceri. Nella memoria ho i lumi, ma la certezza da “diapositiva” non posso garantirla: il tempo può aver vinto parzialmente sui dettagli dei miei ricordi, ma di certo ha vinto definitivamente sulla pellicola ormai deteriorata e invisibile).

Partimmo da Mariazell, facendo una promessa — a suo modo interessata, molto interessata — al Cardinale: “verremo a ritrovarti nella tua casa definitiva, quando riposerai ad Estzergom”.

Quattro anni dopo accadde l’impensato e l’inatteso, ma non l’impensabile e l’inattendibile per chi aveva avuto fede e l’aveva custodita e alimentata con la ragione, per cogliere le crepe del sistema e dell’ideologia: nell’89, a novembre, il Muro venne giù e nel ’91 il comunismo finì anche nominalmente e simbolicamente. E non solo nella casa madre e nelle sue filiali dirette, ma anche in quella più strutturata e più ricca in campo avverso, quella italiana: a Mosca cadde il busto di Lenin, alla Bolognina Occhetto rottamò il nome, le falci e i martelli.

Nel ’91 anche il Cardinale, finalmente, fu libero di tornare a casa, ad Estzergom.

A Mariazell, dov’era la sua tomba, rimase a eterna memoria solo una lapide: «Josephus Cardinalis Minsdzenty […] Pannonia liberata – die tertio – mens. mai. –  anno MCMXCI – In patriam suam revertit – Vixit et vivat».

5. Il cero pasquale

Passò qualche anno prima che potessimo adempiere alla promessa: solo nel ’99, quattordici anni dopo, ci riuscì di andare in Ungheria, insieme ad un’altra coppia di amici.

Era la settimana di Pasqua e la messa In coena Domini del giovedì nella cattedrale di santo Stefano a Budapest rimane uno dei ricordi più vividi: la chiesa stracolma di fedeli, i canti perfetti e partecipati, le candele nelle mani di ognuno che via via si accendevano, poi il buio rischiarato solo da esse, la preparazione al Venerdì di Passione ma anche l’attesa della Risurrezione. Immaginammo anche l’emozione della Messa del sabato santo: altre candele che via via avrebbero preso luce dal Cero, la grande processione che sarebbe rientrata nella chiesa, riportando quella luce, fioca e tremolante ma pur sempre luce, dove s’era fatto buio; infine, la luce accecante dell’Exultet.

Quelle luci e quel buio erano metafore che — vissute insieme a “quel” popolo —  scioglievano il cuore e gli occhi.

Ci tornarono alla mente le fiammelle delle lampade ad olio di Mariazell alimentate dalla pazienza e dalla speranza degli uomini, ma anche e  soprattutto la grande lezione del Cardinale: «Quando poi il Kulturkampf ebbe inizio, ero perfettamente cosciente che cristianesimo e comunismo stavano per misurare le loro forze in uno scontro decisivo. Noi non dovevamo stare tanto a domandarci se saremmo riusciti vincitori; io avevo piuttosto l’impressione che il nostro compito più importante fosse questo: perseverare sul posto, suonare l’allarme alla cristianità, richiamare l’attenzione dell’umanità sulla minaccia del comunismo. Ero convinto di una cosa: il nostro dovere è quello di rendere testimonianza, di mantenere viva nella Chiesa la speranza in giorni migliori, che avrebbero portato quel che a noi era negato, e non essere mai opportunisti passando sopra agli interessi della religione» [JMI, p.112].

Quella notte, il Cardinale — che, per i lunghi anni della dittatura socialcomunista, col suo comportamento aveva rappresentato per “quel” popolo, ma anche per molti di noi, il cero pasquale sempre acceso malgrado i venti gelidi e impetuosi —  sarebbe stato certamente presente nel cuore di tutti, non solo in Santo Stefano ma in tutte le altre chiese ungheresi, compresa la cappellina dell’istituto religioso in cui noi nella stessa notte facemmo la veglia pasquale.

continua)

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