DA MARIAZELL A ESZTERGOM, DA OTTO A MINDSZENTY. FINO AL BEATO CARLO (di Guido Verna) – 3^ Parte –

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6. Esztergom: il premio per la promessa adempiuta.

 Ma era ad Esztergom che il Cardinale ci aspettava per il saldo del vecchio debito.

Qui, nel 986, dal principe magiaro Géza, era nato Vajk, battezzato a 10 anni col nome del primo protomartire cristiano, Stefano e la cui incoronazione a re, nel Natale del 1000, fu «[…] [l’] avvenimento [che] suggellò la trasformazione di un’orda barbarica, che aveva terrorizzato i popoli cristiani, in un Regno della Respublica Christianorum, il quale sarà un “baluardo di difesa della cristianità contro l’invasione dei tartari e dei turchi(Messaggio di Giovanni Paolo II al popolo magiaro, 20 agosto 2000, n. 1)» [ATA].

Qui, c’erano le radici della nazione che ha avuto come primo Re un santo, qui, in questo straordinario luogo sacro descritto così, nelle sue Memorie, dal Cardinale: «Esztergom era anche espressione della concezione cristiana medievale dello Stato, in cui sacerdotium e imperium, il papa e l’ imperatore, si davano la mano. In Ungheria questo principio trovava la sua incarnazione nel re e nell’arciv escovo di Eszt ergom. Il primate incoronava il re con la corona che era stata di santo Stefano. Solo al momento di questa incoro nazione il re diventava capo della nazione. La santa corona era considerata la fonte del diritto e del potere nel paese. Tutta la nazione, re incoronato e popolo, stavano sotto di essa; la corona univa il re e il popolo ed era l’origine simbolica della sovranità nazionale. L’arcivescovo di Esztergom aveva il diritto di incoronare il re e per questo era considerato primate fra gli altri dignitari dello Stato e della Chiesa. Egli faceva le veci del re quando questi si allontanava dal paese; il re lo consultava e ne richiedeva il consiglio. Quando il re trasgrediva la costituzione, l’arcivescovo di Esztergom era obbligato ad ammonirlo e a esigere da lui l’osservanza delle norme costituzionali. […] Un atteggiamento del genere corrispondeva alle aspettative della nazione ed era considerato un dovere ovvio del primate tanto dai cattolici come dalla gente di altra fede» [JMI, p.55].

Durante la nostra visita alla tomba del Cardinale, accadde qualcosa che ci colpì: come per incanto, il flusso continuo dei fedeli si interruppe per qualche minuto, proprio mentre noi eravamo sotto la lapide a ringraziare. Ci venne allora da pensare e da sperare che “quel” Cardinale che poteva ammonire i Re, potesse anche “premiare” i sudditi umili e fedeli. E perciò questa stasi e questo improvviso silenzio lo sentimmo come un segnale di gradimento e gliene fummo e gliene siamo ancora grati.

La lapide, come d’altronde ogni lapide ben pensata, sintetizzava mirabilmente la sua vita: in alto, il “senso ultimo”: «Vita humiliavit, Mors exaltavit»; nella parte bassa, lo “svolgimento e le linee direttrici”: «Belli impetu firmus / Tyrannica protestate cruciatus ad carcerem damnatus / Patriae exsul obediens Romanae Matris Ecclesiae filius / Amatissimae patriae honestatis cultor usque ad mortem permansit / In cella Mariae sepultus anno XVI° post obitum traslatus / Hic in pace quiescit» [Saldo nell’infuriare della guerra / Oppresso da un potere tirannico [fu] condannato al carcere / Esule dalla patria, figlio obbediente della Madre Chiesa Romana / Restò fino alla morte devoto all’onore dell’amatissima patria / Sepolto a Mariazell, fu traslato nel XVI anno dopo la morte / Qui riposa in pace].

Sarebbe bello poter impreziosire questa lapide con un’altra scritta, quella che piaceva  tanto al Cardinale: «Devictus vincit» [Vinto ma vittorioso]. L’aveva trovata su un’immagine inviatagli «[…] da uno sconosciuto fratello di fede [che] mostrava  il Cristo incoronato di spine […]. Quell’immagine — racconta — sarebbe rimasta con me anche nei giorni del processo. Quando poi in carcere mi fu dato il permesso di celebrare la messa, la scelsi come quadro d’altare. Più tardi mi accompagnò durante gli arresti domiciliari, e quando nel 1956 i combattenti per la libertà vennero a liberarmi, fu la prima cosa che presi con me. Anche dopo, durante la permanenza all’ambasciata americana, celebrai sempre la Messa davanti al “Cristo vinto ma vittorioso”, che ancor oggi è il mio fedele compagno. La prima parte della scritta, quel “vinto”, è diventata una realtà anche nella mia vita; ma la speranza della vittoria è riposta nel futuro, nelle mani di Dio» [JMI, pp.176-177].

Il suo futuro e la sua vittoria erano già arrivati. Ora, finalmente era tornato  a casa.

Avevamo letto il giudizio sprezzante che Claudio Magris, nel suo Danubio, aveva espresso sulla Bazilika, un giudizio che non era solo estetico ma debordava pesantemente nella storia: «L’enorme cattedrale neoclassica che troneggia sul Danubio — aveva scritto — ha la fredda e morta monumentalità di un cenotafio e irradia una glaciale potenza o prepotenza temporale» [CMA, p.304]. Noi, invece, vedendola così imponente, apprezzammo l’azione “quantitativa” della Provvidenza sull’architetto. Magari non era bellissima, ma era dominante e tanto “grande” e tanto “visibile” da non potere essere distrutta in silenzio dal regime ateo che aveva governato l’Ungheria per tanto tempo; era tanto “grande” e tanto “visibile” da poter essere vista anche da lontano: pro memoria della grandezza passata ma anche speranza per il futuro. Spiaceva agli intellettuali, ma rasserenava i pover’uomini che la guardavano, ai quali comunicava che, malgrado tutto, Dio continuava ad esserci.

In più, oggi apprezzo anche le “finezze” della Provvidenza: per Magris, la Bazilika rappresentava un cenotafio, cioè un «monumento sepolcrale privo dei resti mortali della persona in onore della quale è stato eretto» (Devoto Oli). Magris scriveva il suo Danubio nel 1986, comunismo vigente e apparentemente vincente. Nel 1991, però, il comunismo finì e il Cardinale tornò da Mariazell a casa, il 4 maggio, il mese di Maria. Lo accolsero, tra gli altri, il Card. Opilio Rossi, rappresentante personale di Giovanni Paolo II, e Otto d’Asburgo. E finalmente, diventò chiaro in onore di chi quel monumento sepolcrale fosse stato eretto.

Uscendo, scendemmo fino al Danubio, per vederlo da vicino e sentirlo scorrere in silenzio. Anche gli slovacchi — pensammo — che abitavano sull’altra sponda e che da lì, per tanti anni, avevano potuto ammirare solo da lontano le cupole verdastre e il retro della Bazilika, ora finalmente sarebbero stati liberi, attraversando il ponte Maria Valeria — a quel tempo, mi pare di ricordare che ci fossero solo i piloni —, di risalire verso la facciata neoclassica e superarla per entrare e rendere omaggio al suo nuovo, grande Ospite.

Rimanemmo ancora un po’ a guardare: e il grande fiume mi sembrò, con la sua imperiale lentezza, la strada “perfetta” — e finalmente utilizzabile — per venire a far visita adeguatamente all’ “indomito Primate”.

7. La via che non c’è più e la Corona sacra che è tornata a “vivere”

A Budapest, c’era ancora molto altro da vedere e per cui emozionarsi: anzitutto, la corona di Santo Stefano, al Museo Nazionale.

Anche qui, di passaggio, un ricordo personale, forse non inutile. Avevamo cercato inutilmente quella Via Pal — e nemmeno dopo l’avremmo trovata — che allora era legata solo ai suoi ragazzi e al loro senso dell’onore e che poi, nell’era di Internet, ci avrebbe ricordato anche gli orribili fatti evocati dalla fotografia trovata in rete di un carro armato sovietico con questa didascalia: «L’angolo tra il Boulevard József e [— appunto —] via Pál, 28 ottobre 1956: recupero dei cadaveri durante la tregua» [fVP]. Chiedemmo notizie della via, citando Ferenc Molnár (1878-1952), alle due ragazze della biglietteria. Sulla prima, la domanda scivolò via totalmente ininfluente: non ne aveva mai sentito parlare. Alla seconda, invece, si illuminarono gli occhi: lei sapeva tutto di “quei” ragazzi, perché sua nonna di nascosto le aveva dato da leggere il libro (che ci sembrò di capire fosse vietato), e forse ne era orgogliosa. E forse era anche felice di scoprire che la nonna e qualcun altro “di là” avessero apprezzato le stesse storie e gli stessi sentimenti: le discontinuità di tanti anni potevano allora essere riassorbite. Pensammo: dove il comunismo non ha fatto in tempo a distruggere le memorie, anche morali,  dei nonni, qualcosa è riuscito a sopravvivere… Ma, come vedremo, c’era molto, molto di più, che era riuscito a sopravvivere …

La stanza “dedicata”, nel Museo, era tutta blu. Al centro, in una teca ricolma della sua luce dorata e dei bagliori delle sue pietre preziose, ammirammo la Szent Corona, con i suoi santi smaltati e colorati e la croce d’oro inclinata e confitta nel corpo del Cristo dipinto nella sua parte più alta. 

Finito il comunismo, subito nel 1990, l’Assemblea Nazionale aveva rimesso la Sacra Corona sullo stemma dell’Ungheria, dal quale erano scomparsi nel ‘56 — forse per la vergogna “cingolata” — il martello e la spiga, mentre ora spariva anche la stella rossa, l’ultimo residuo formale della dittatura dello stesso colore.

Poi, in occasione del millennio dell’Incoronazione, il 1° gennaio 2000, fu stabilito che essa uscisse dal Museo — cioè da luogo dove in genere si cristallizza il passato e si sanziona la sua definitiva non “ritornabilità”— per tornare a svolgere la sua funzione di esemplarità dinamica anche nel presente e per il futuro proprio laddove esistono e/o si elaborano gli strumenti e gli itinerari di guida della nazione; si decretò, pertanto, «[…] che la Sacra Corona e le insegne regali [lo scettro, il globus cruciger e la spada] del fondatore della nazione ungherese fossero solennemente trasferite dal Museo Nazionale nella sala a cupola del Parlamento con gli onori militari riservati al capo dello stato» [ATA] .

Nella nuova “casa”, i santi, le pietre preziose e la croce della Corona non solo hanno continuato a emettere ancora luce, ma provvidenzialmente ne hanno anche potentemente aumentato l’intensità, se è vero che, undici anni dopo, ho potuto leggere questa “stupefacente” notizia: «Lunedì 18 aprile 2011, in conformità con gli impegni presi dal primo ministro Viktor Orban quando nell’aprile 2010 vinse in modo eclatante le elezioni politiche (2/3 dei seggi alla Camera dei deputati), la Costituzione ungherese è stata modificata nello spirito e nella lettera. Il testo del 1990, adottato subito dopo la caduta del Muro di Berlino, è stato giudicato troppo liberale e ancora caratterizzato da residui comunisti. […] [Pertanto sono state apportate queste modifiche:] La Costituzione si inscrive nella continuità della Santa Corona […]  protegge l’istituzione del matrimonio, considerato come l’unione naturale tra un maschio e una femmina e come il fondamento della famiglia […]  Dal momento del concepimento, la vita merita di essere protetta come un diritto umano fondamentale »[EMO].

La Szent Corona aveva ricominciato a “lavorare” e la lezione politico-morale di Santo Stefano tornava a dipanarsi all’interno della nazione ungherese. 

Al figlio, che avrebbe dovuto succedergli ma che invece morì giovane per un incidente di caccia, Santo Stefano si rivolgeva in questi termini: «Innanzi tutto, figlio carissimo, se vuoi rendere onore alla corona reale, ti ordino, ti consiglio e ti raccomando di custodire la fede cattolica e apostolica con tale diligenza e vigilanza, da offrire un modello a tutti color che per volontà di Dio ti sono sudditi e in tal modo che tutti gli uomini di Chiesa ti possano a ragione chiamare un vero cristiano. Altrimenti non potrai esser detto cristiano siine certo né figlio della Chiesa  (p. 47). […] Nel palazzo reale il secondo posto, dopo la fede, spetta alla Chiesa, la quale fu inizialmente seminata da Cristo, che è il nostro capo, e poi, per opera selle sua membra cioè degli Apostoli e dei santi Padri fu trapiantata,  saldamente edificata e infine diffusa in tutto il  mondo (p. 49). […]  [E lo esortava così:]

[…] la pratica della pietà, ti porterà alla suprema beatitudine.

Sii misericordioso con tutti quelli che subiscono violenza, tenendo sempre presente nel tuo cuore quelle parole divine: “Misericordia voglio e non sacrificio” [Mt 9,13].

Sii paziente verso tutti, non solo verso i potenti ma anche verso coloro che non hanno potere..

Sii poi forte, perché la prosperità non ti esalti e l’avversità non ti abbatta.

Sii inoltre umile, perché Dio ti innalzi sia qui  che nella vita futura.

Sii moderato, in modo da non punire o condannare nessuno oltre misura.

Sii mite, così da non andare mai contro la giustizia.

Sii retto, sì da non recare mai volutamente disonore a chicchessia.

Sii infine pudico, evitando ogni fetore di libidine  come fosse un pungiglione di morte.

Tutte queste cose testé menzionate compongono la corona reale: senza di esse nessuno può regnare in questo mondo, né raggiungere il regno eterno» (p.69) [SST].

Purtroppo i nostri governanti “cattolici” hanno avuto — o si sono scelti — padri totalmente diversi, che li hanno guidati nell’azione politica con esortazioni altrimenti orientate. Sarà difficile che cambino la Costituzione…

8. La collina dell’incoronazione

Uscendo dalla funicolare che sale a Buda, ci venne subito da affacciarsi su Pest e sul Ponte delle Catene. E insieme ci tornarono alla labbra i versi di una dolente canzone della nostra gioventù, ispirata dai carri armati sovietici del ‘56: «Sto sul monte e guardo giù, dove c’era una città…» [cLV], una città che il Cardinale, nei primi giorni di novembre, descriveva così: «A poco a poco su Budapest scese un silenzio da cimitero. Per le strade giacevano centinaia di morti e di feriti. Secondo notizie non controllate, in quegli otto giorni, ci sarebbero stati circa 5.000 morti e 20.000 feriti. Treni carichi di deportati presero al via della Siberia; moti deportati erano giovani tra i dieci e i diciotto anni, ragazzi e ragazze che gettavano biglietti scritti dai treni in corsa» [JMI, p.331].

Per Togliatti — il “migliore” dei comunisti italiani — quei biglietti si persero nel vento, se «[…] già la domenica del 4 novembre […]  potrà brindare, “con un bicchiere di vino rosso in più”, all’inizio della seconda e definitiva repressione russa. Il primo ciclo di calunnie si chiudeva al rombo del cannone. Qualche giorno dopo scriverà un articolo che sembrava sgorgargli dal cuore più che dalla mente: “E’ mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo” » [EBE].

Ora, se Dio vuole, quel vino era diventato aceto e giù non c’era più una città in fiamme, bensì una città che stava rifacendosi “bella” per tornare agli antichi splendori, prima del comunismo e dei carri armati.

Nella visita al castello dove, nel dicembre 1916, dopo la morte di Francesco Giuseppe, il beato Carlo d’Asburgo era diventato Re Apostolico d’Ungheria, non riuscimmo a cogliere tutto pienamente, perché allora conoscevamo poco o nulla di quei rituali che, più avanti nel tempo, scoprimmo in un bel libro scritto da amici [OS-IMS] dal quale ho attinto copiosamente. 

Quando Carlo e Zita, arrivarono a Budapest per l’incoronazione, la città li accolse trionfalmente. Il 30, «alle otto e mezza di mattina […] uscirono dal palazzo reale con la carrozza di gala, tirata da otto cavalli bianchi, e salirono le colline del castello fino alla cattedrale» [IMS, p.172] dove il principe Primate d’Ungheria, il Cardinale Jànos Czernoch (1852-1927) consegnò al Re la spada di Santo Stefano, gli pose sulla testa la sacra Corona — inviata, nell’anno 1000, allo stesso Santo Stefano, da Papa Silvestro II (999-1003) — e infine affidò alle sue mani lo scettro e il globo imperiale. Subito dopo, fu la volta di Zita ad essere proclamata regina d’Ungheria.

Poi, «fuori dalla cattedrale, ai piedi della colonna della Trinità, ebbe luogo un altro momento della cerimonia: il nuovo re, intitolato Carlo IV d’Ungheria, con la sacra corona sul capo, reggendo una croce nella sinistra e tenendo tese tre dita della mano destra alzata, giurò fedeltà alla costituzione ungherese; quindi salì in groppa a un cavallo con la bardatura e le staffe d’oro e, seguito dai più importanti nobili ungheresi vestiti del tipico abito da cerimonia magiaro, cavalcò lentamente nel piazzale aperto del castello verso la collina detta dell’Incoronazione (o Diszer), costruita con terra estratta dal suolo di tutte le sessantatré contee ungheresi. Il nuovo re salì da solo, al galoppo, sul rilievo, da dove brandì la spada verso i quattro punti cardinali, esprimendo con un gesto simbolico il suo impegno a difendere il paese da ogni nemico e a conservarlo intatto» [IMS, pp.172-173].

Non sapevamo niente della collina e quindi non l’abbiamo vista e nemmeno immaginata: forse è un buon motivo — e non il solo — per tornare in Ungheria.

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